L'intervista

«Non è un caso se dietro al dito vediamo la Coppa del Mondo»

«La finale avrà l’halftime show»: la FIFA guarda ai Mondiali del 2026 e inizia a sentirsi un po’ più americana – Ne abbiamo parlato con Valerio Mancini e Narcís Pallarès-Domènech, analisti dei legami tra calcio e geopolitica
© REUTERS/Kevin Lamarque
Paolo Galli
30.03.2025 21:15

«La finale avrà l’halftime show». La FIFA guarda ai Mondiali del 2026 e inizia a sentirsi un po’ più americana. «Sarà un momento storico per la Coppa del Mondo e uno spettacolo degno del più grande evento sportivo». Lo ha detto Gianni Infantino, ormai tra le personalità globali più vicine a Donald Trump. Il mondo diventa di giorno in giorno più matto, ma i Mondiali avranno il loro spettacolo in stile Superbowl. In qualche modo è pure rassicurante, della serie «The show must go on». Se il calcio non si ferma, è sempre un buon segnale. O no?

Valerio Mancini, è davvero così? Mancini è professore e direttore del Centro di ricerca della Rome Business School, esperto di relazioni internazionali. Ha una cattedra anche alla Sapienza. Ed è co-autore dei libri «Calcio & Geopolitica» e «Calcio, politica e potere», entrambi per Edizioni Mondo Nuovo.
«In fondo è così, sì. Siamo davvero in un contesto globale geoeconomicamente molto particolare, segnato da instabilità ma anche da alcuni elementi di continuità. In Ucraina il campionato di calcio si sta ancora giocando, per esempio, tra enormi difficoltà, certo, ma non si è fermato. L’idea è di mantenere, di salvaguardare, almeno alcune occasioni di incontro, di condivisione. L’organizzazione di un evento sportivo - e lo abbiamo visto in passato, basti pensare agli anni prima della Seconda guerra mondiale - appartiene a un’illusione collettiva di normalità. Lo sport tende a oscurare i problemi strutturali, ovvero i conflitti aperti, le tensioni. E questo può essere il caso anche del Mondiale NAFTA (North American Free Trade Agreement, ndr), con il calcio a giocare un ruolo di ponte, di connessione, con il suo linguaggio universale che può essere elemento di coesione, piuttosto che di divisione».

Gianni Infantino si è mostrato molto presente rispetto alla nuova presidenza di Donald Trump. Era tra gli ospiti d’onore il giorno dell’insediamento. Fotografato e inquadrato dalle telecamere di tutto il mondo. Per Trump è «Gianni». Lui, dal canto suo, si rivolge a Trump con il più classico «Mister President». Una relazione - «una grande amicizia», la definisce Infantino - piuttosto stretta.
«La presenza di Infantino il giorno dell’insediamento è emblematica, certo. È il segnale che la FIFA ha sempre più un proprio peso politico e geopolitico. Va ricordato che la FIFA ha più Paesi membri rispetto alle Nazioni Unite. E che spesso riesce ad anticipare le tendenze geopolitiche mondiali. Sono pronto a scommettere che la Groenlandia farà parte della FIFA prima ancora di diventare un Paese indipendente. O pensiamo alle sanzioni alla Russia, arrivate prima dalla FIFA che non dall’Occidente politico. Trump insomma riconosce il peso di Infantino, da lui definito come “il re del calcio”, ma sa che i Mondiali del 2026, pur organizzati con Canada e Messico, sono i Mondiali degli Stati Uniti. Usa lo slogan United 2026, ma l’impressione è che quello “United” stia per United States più che per unione tra Paesi».

Annunciando la creazione di una taskforce interna alla Casa Bianca sui Mondiali, negli scorsi giorni, Trump ha definito «una cosa positiva» la tensione tra co-organizzatori. Basti pensare alla guerra economica da lui generata. «Penso che li renderà più emozionanti». Dice molto della visione del mondo di Trump.
«Certo, il Mondiale diventa strumento. Ma la sua era stata un’autentica campagna elettorale, per accaparrarselo. Durante l’era Biden non si è praticamente mai parlato di questo evento, anche perché non è mai stato davvero suo. Ora invece lo si menziona ogni giorno. Trump è molto attento, capisce benissimo il peso dello strumento di propaganda, in particolare rispetto ai latinos, da cui non a caso ha preso tantissimi voti. Il calcio è lo sport perfetto per strumentalizzare le masse. Non è un’idea nuova. Ai tempi di Mussolini, lo sport più popolare era il ciclismo, ma la bicicletta costava troppo, per cui si pose l’accento sul calcio».

Narcís Pallarès-Domènech, lei è analista di geopolitica. So che la sua lettura dei fatti parte da lontano. Da dove esattamente?
«Sì, effettivamente bisogna ricordare che questi Mondiali sono stati fortemente voluti da Trump. Nel 2010 si assegnarono due edizioni, alla Russia il 2018 e al Qatar il 2022. Concorrenti del Qatar erano proprio gli Stati Uniti. Gli americani non presero bene la sconfitta. Si sono dette molte cose di quel giorno, anche di un vetro spaccato da Bill Clinton, una volta rientrato in hotel a Zurigo, furioso dopo la votazione, dopo quella che venne vissuta come una figuraccia a livello di diplomazia sportiva. Anche perché i Mondiali andarono a un piccolo Paese del Golfo. E gli americani - ma vale per tutti gli imperi - hanno memoria. Il Fifagate del 2015 nasce non a caso da un’inchiesta dell’FBI. Ecco allora che i Mondiali del 2026 sono di colpo diventati un obbligo, per Donald Trump, una rivalsa da ottenere a ogni costo».

Trump non si è fermato ai Mondiali. L’impressione è che voglia andare ben oltre. È così?
«In questo mondo valorizzato, gli Stati Uniti sono stufi di essere un’eccezione: sono il Paese economicamente, militarmente, più potente al mondo, ma anche un Paese del tutto periferico nello sport più popolare al mondo. Trump ora vuole portare a termine il lavoro iniziato - ricordiamolo - da Henry Kissinger nel 1988, quando, il 4 luglio, annunciò che sarebbero stati gli Stati Uniti a ospitare i Mondiali del 1994. La prima strada è il calcio femminile, destinato a essere un grande elemento del calcio globale. E poi c’è il business: non si fa business mondiale attraverso l’hockey, il baseball o il football, ma con il calcio. E da questo ragionamento nasce una seconda strada di sviluppo, che è quella del dominio di questo mondo da un punto di vista geopolitico: ecco tanti investitori americani che comprano squadre nei principali campionati europei, a cominciare da quelli che hanno più mercato globale, Premier e Serie A. Ed eccoci al Mondiale».

Il disegno è chiaro: Miami è la città-ponte tra l’America anglosassone e l’America latina, è la città americana dove il calcio è lo sport più popolare, dove si parla spagnolo, dove è stato preso Lionel Messi. Un’operazione complessa di influenza, insomma, per una sorta di Dottrina Monroe applicata al calcio

Con la finale che si giocherà a New York, considerata da molti come la capitale mondiale.
«Esatto. Il che ci fa capire che gli Stati Uniti vogliono dominare la retorica del calcio. Non dimentichiamo che sempre gli Stati Uniti organizzeranno quest’anno anche il primo Mondiale per club, che era stato pensato in realtà per la Cina nel 2021. Poi a causa del COVID saltò, ed è quindi passato agli Stati Uniti. Ma non solo: gli Stati Uniti hanno pure ospitato la fase finale dell’ultima Copa America, con l’ultimo atto giocato a Miami. Perché a Miami? Il disegno è chiaro: Miami è la città-ponte tra l’America anglosassone e l’America latina, è la città americana dove il calcio è lo sport più popolare, dove si parla spagnolo, dove è stato preso Lionel Messi. Un’operazione complessa di influenza, insomma, per una sorta di Dottrina Monroe applicata al calcio. I Mondiali fanno parte del disegno, e nulla è lasciato al caso. Dicevo della finale a New York, che rispetto a Miami è l’altro polo calcistico importante negli Stati Uniti. I due principali gruppi di proprietà multiclub hanno sede a New York, il Red Bull e il City Group. Perché? Proprio perché è considerata la capitale mondiale. È una delle due dimensioni, l’altra è Miami, appunto, e ognuna ha un suo scopo, una globale, l’altra regionale».

Torno da Valerio Mancini e al rapporto, molto stretto come si diceva, tra Gianni Infantino e Donald Trump. Che cosa ci racconta questo rapporto - e fatico a ricordarne uno simile in tempi recenti - dell’epoca che stiamo vivendo?
«Ci dice che il calcio cerca una sua legittimazione attraverso la politica. Vale anche il contrario, è evidente, ma della politica sappiamo benissimo che ha la necessità di una legittimazione e che lo sport, in questo senso, è uno strumento. Lo è stato ai tempi di Mussolini, di Hitler, ma anche di Videla. Ci sono tantissimi casi nel passato in cui lo sport è stato usato per costruire delle narrazioni identitarie, patriottiche e ideologiche. In questo caso, ribadisco che alla FIFA, che cerca nuovi territori di espansione - geografici, ma non solo, se pensiamo al calcio femminile -, viene riconosciuto un ruolo geopolitico di primo piano. Il calcio non può permettersi d’altronde di accontentarsi dei territori già noti. Le nuove frontiere, come la Kings League, lo dimostrano».

Narcís Pallarès-Domènech, qual è la sua lettura delle azioni geopolitiche di Gianni Infantino e della FIFA?
«Parlo da analista geopolitico e mi limito quindi ai fatti. E bisogna riconoscere che Infantino è un abile diplomatico, perché la funzione del diplomatico in primis è quella di creare i migliori rapporti possibili con tutti i propri interlocutori. Ricordate la finale del 2018? A Mosca, Infantino venne ritratto in tribuna tra il principe saudita Mohammed bin Salman e Vladimir Putin. Ha buoni rapporti con il presidente russo e con il mondo arabo. E ha buoni rapporti con Trump, sì. Il tutto in un momento di forti tensioni geopolitiche. Restando su Trump, segnalo altre due immagini molto cariche di significato».

Quali?
«La prima risale al 2018. Infantino è ricevuto nello Studio Ovale della Casa Bianca e mostra una maglietta con la scritta Trump e il numero 26. Visto oggi, è un simbolo molto forte di quello che sarebbe stato il futuro degli Stati Uniti, al di là del calcio. La comunicazione politica americana è fatta anche di questi piccoli elementi, e ogni cosa ha un suo significato. Se facciamo quindi un salto ai giorni nostri, ritroviamo Trump nello Studio Ovale. E un’altra fotografia iconica lo fissa nell’immaginario globale. Mi riferisco a quella in cui il figlio di Elon Musk, lì di fianco alla scrivania del presidente, si mette un dito nel naso. La fotografia diventa virale, tutti ne parlano. Ma dietro al dito, la luna è rappresentata da un elemento sullo sfondo: sì, la Coppa del Mondo di calcio. In questo momento di ridefinizione del mondo, gli Stati Uniti hanno tra le mani l’elemento con il maggior potenziale comunicativo, i Mondiali di calcio».