Quando brucia una cattedrale: storia di una bellezza non dovuta
La cattedrale, simbolo di Parigi, bruciò a cavallo di due giornate nell’aprile di cinque anni or sono. Tra oggi e domani riaprirà al pubblico. Prevista una cerimonia alla presenza di Macron, a cui farà seguito un concerto. La messa inaugurale avrà luogo domani alle 10.30. Tutto pronto, insomma, per una nuova normalità.
«Parigi piange uno dei suoi principali simboli, il monumento più visitato d’Europa, andato in fiamme per cause ancora da accertare. La procura di Parigi ha aperto un’inchiesta». Iniziava da qui la nostra cronaca dalla capitale francese, il giorno successivo all’incendio, che divampò nel tardo pomeriggio di lunedì 15 aprile 2019. Emmanuel Macron parlò subito della cattedrale di Notre-Dame come di «una parte di noi». Una parte, a dirla tutta, della cultura occidentale. Il presidente parlò, più compiutamente, alla nazione soltanto il martedì. Di quel discorso rimasero, in particolare, le seguenti parole: «Ricostruiremo Notre-Dame entro cinque anni, ancora più bella. Ce la possiamo fare». Ecco fissato un ultimatum: cinque anni di tempo per sistemare un edificio che era stato costruito lungo 182 anni di storia, a partire dal 1163.
La chiesa di tutti
Quello stesso martedì, il Corriere del Ticino intervistò Mario Botta. Tra le varie risposte, ci ha colpito rileggere la sua accusa alla società occidentale: «Ferire Notre-Dame significa fare del male a una parte di noi stessi, è come perdere una parte di una memoria, perché questo incendio è una ferita che resterà. Anche se verrà rimarginata, si tratta di una lesione avvenuta sotto la nostra egemonia politica ed economica. Non siamo stati capaci di evitare un banale incendio, come ce n’erano nel Medioevo e come se ne sono registrati in tutte le chiese. È uno smacco per la società dei consumi. Siamo andati sulla Luna e non siamo stati capaci di proteggere un bene che c’è stato dato da godere pro tempore. Nella nostra generazione abbiamo subìto uno smacco che resterà per sempre». Una reazione delusa e arrabbiata. D’altronde, sottolineò ancora l’architetto ticinese, «la cattedrale di Notre-Dame è importante perché è la chiesa di tutti: è la chiesa della nostra identità». Parole che restano, appunto.
Luoghi dell’anima
La rinascita della cattedrale, per dirla con Macron, che ha visitato un’ultima volta il cantiere lo scorso 29 novembre, è «una scossa di speranza». Ma qual è oggi il ruolo dei luoghi sacri nella cultura occidentale? «Nonostante il clima culturale attuale, che è molto diverso da quello dei secoli in cui sono nate le cattedrali - sia quelle romaniche, sia quelle gotiche in particolare -, sono certo che siano ancora luoghi dell’anima». Nel suo intercalare, Marco Meschini, storico medievista, presidente e direttore del liceo privato luganese Everest Academy e già docente all’USI - Sellerio ha recentemente ripubblicato il suo libro Le pietre e la luce. La cattedrale del Medioevo -, qui fa una pausa. Poi ripete il concetto: «Sì, sono ancora luoghi dell’anima». Poi prosegue: «Certo, nell’ipotesi in cui esista l’anima, perché naturalmente il nostro mondo mette in discussione anche questo. Ma, se la risposta è positiva, questi sono luoghi dove riverbera l’anima. E non parlo semplicemente dell’anima personale o, sempre con linguaggio contemporaneo, individuale. Ma di quell’anima che alcuni chiamerebbero “collettiva”. Io preferisco definirla “comunitaria”». E dunque sono sì luoghi sacri per chi crede, aggiunge il professore, «ma comunque luoghi dove l’anima, lo spirito delle persone, lo spirito della società, lo spirito del tempo riverbera ancora».
Nonostante le infradito
E questo vale anche se questi luoghi sono diventati, nel frattempo, pure siti turistici. «Io direi di sì», risponde Meschini. «Anche al netto del chiacchiericcio, della distrazione, dello sguardo verso i cellulari». Uno spreco, con quelle altezze di fronte a noi. Con quella bellezza. «Sì, ritengo che prima di perdersi nello schermo, nell’affanno della memoria digitale, bisognerebbe lasciarsi inondare dalla luce che vive in questi spazi, e quindi vivere il momento analogico, il contatto immediato con il luogo sacro». Ma spesso l’anelito trascendente sa andare oltre l’immanente. Lo storico fa un esempio: «Un giorno, lo scorso anno, mi trovavo nella basilica di Saint-Denis con la mia famiglia, e a noi si aggiunse casualmente una compagnia di turisti in infradito e canottiere, una compagnia piuttosto rumorosa. Eppure, a un certo punto, notai come di colpo si formò un silenzio dettato dal luogo. Il che mi fece riflettere come persino la nostra distrazione più imbarazzante possa essere ridestata da certi luoghi o spazi». Per quanto viviamo un’epoca molto secolarizzata, «ci sono comunque momenti in cui abbiamo la necessità di aggrapparci alle reliquie, a ciò che letteralmente “resta”». Tornando all’esempio che ha fatto, chiediamo allo storico che cosa davvero ci spinga ad ammutolirci. È la bellezza? È il peso di una storia che non per forza conosciamo, ma che comunque percepiamo? «È tutto questo, sì. Da un lato c’è l’evidenza della bellezza. Il Bello, insieme al Vero e al Bene, nel senso dettato dalla filosofia medievale, sono i tre attributi fondamentali del divino. E quando la bellezza ti sorprende, ti coglie, e tu hai un attimo - quantomeno - di afasia che può aprirsi all’estasi, un’estasi magari puramente artistica e architettonica, iconografica, si crea una via d’accesso a un trascendente, e quindi al divino». Ritrovare certi luoghi ci permette quindi, in profondità, di ripercorrere i passi che qualcuno ha già percorso e immaginato per noi. «Proprio noi, noi che siamo il futuro del presente di chi ci ha preceduto». Dall’altro lato, fa notare Meschini, «ogni cattedrale è diversa, ma c’è un respiro comune. Un’anima che dialoga da uno spazio all’altro e che mi e ci permette di riprovare qualcosa che è sepolto in me, in noi». Sono esperienze che risvegliano i nostri sentimenti più profondi.
L’idea della perdita
Forse è anche per questo che, quando è bruciata la cattedrale di Notre-Dame, una cattedrale che non tutti abbiamo frequentato, siamo però rimasti talmente colpiti che ancora ci ricordiamo cosa stavamo facendo. Un po’ come con le Torri gemelle di New York. Eppure qui non parliamo di un atto terroristico, e non ci sono state vittime. «L’incendio del 2019 ci ha ferito, sì, ne sono convinto anch’io. Perché ci si è resi conto della fragilità di ciò che noi siamo, anche proprio come tradizione, come storia», sottolinea ancora Marco Meschini. «Abbiamo centinaia di cattedrali, in Europa, e sono talmente evidenti, d’altronde, presenti nella nostra cultura da così tanto tempo, che tendiamo a darle per scontate. Ma ecco che, quando un evento imprevisto rischia di portarcele via, ci rendiamo conto di che cosa perderemmo, di come le nostre vite cambierebbero se non ci fossero quelle cattedrali. Tutti viviamo, prima o poi, l’esperienza della perdita di persone a noi care, e quando le perdiamo ci rendiamo conto di come tutto cambi. Con la cattedrale di Notre-Dame c’è stata una ferita, per fortuna non una ferita mortale, ma lo spavento era legato all’idea della perdita. Quella sarebbe stata una tragedia difficile da superare». La ferita subita, in questo caso, è servita anche a farci riaprire gli occhi, «su qualcosa che non è neppure dovuto e che non per forza rimarrà per sempre. Non è che, per forza, ci meritiamo tanta bellezza. Ci sono state molte perdite nel corso della storia dell’arte e dell’architettura, e quando perdiamo un’opera, una struttura, quella è persa per sempre». Pensiamo alle guerre e ai monumenti che si portano appresso. «Pensiamo al Partenone. Siamo riusciti a far esplodere il Partenone».
Una delicata armonia gotica
Qualcosa, della cattedrale che era, è rimasto. Qualcosa è andato perduto, nonostante l’impegno e il lavoro di tutti. Ecco, chiediamo a Meschini se avremo la sensibilità per notare la differenza, se il nostro spirito vivrà diverse percezioni. Il professore è prudente, vuole prima tornarci di persona. Poi, sulla base delle poche immagini rimbalzate da Parigi, ammette: «Sono perplesso. Temo il momento in cui rientrerò nella cattedrale. Mi pare infatti ci sia troppo bianco nelle parti ricostruite. Nelle intenzioni dei restauratori c’era la volontà di sottolineare ancora di più la luce, ma le cattedrali gotiche, da questo punto di vista, rappresentano una delicatissima armonia, un delicatissimo equilibrio tra la penombra e la luce stessa. Non so, allora, se questa nuova realtà riprenda correttamente il dialogo con il divino, l’esperienza trascendente dentro uno spazio sacro». Sarà, in tutti i casi, una scoperta, intima e comunitaria.