Se a lasciare la politica è una donna, la narrazione si trasforma?
«Quest'estate speravo di trovare l'energia per prepararmi non solo per un altro anno ma per un altro mandato. Non ci sono riuscita. Perciò oggi annuncio che non mi ricandiderò alla rielezione e che il mio mandato di primo ministro si concluderà entro il 7 febbraio. Questi sono stati i cinque anni e mezzo più appaganti della mia vita, ma sono stati anche ricchi di sfide». È con queste parole che, il 19 gennaio, la premier neozelandese Jacinda Ardern ha annunciato le sue dimissioni dopo cinque anni e mezzo di mandato e a nove mesi dalle elezioni legislative. «Sono umana - ha detto in conferenza stampa -. Noi diamo tutto quello che possiamo per tutto il tempo che possiamo e poi arriva il momento. E per me quel momento è arrivato. Semplicemente, non ho più le energie per altri quattro anni». Qual è la notizia? Le dimissioni della premier. Ma il modo di raccontarla, nel mondo, ha messo in luce sfaccettature diverse. E aspetti culturali (e pregiudizi) difficili da sradicare.
«She will step down», titolava il New York Times. «Non ho più energia» è il virgolettato usato nel titolo da El Paìs. Per Le Monde la premier «si congeda» e O Globo ha puntato sulla «rinuncia». Il tutto, accompagnato dai motivi delle dimissioni e la ricostruzione della sua carriera politica. Ma, la narrazione ha preso pieghe differenti altrove. «Ha preferito gli affetti al potere», ha scritto qualcuno. Altri, si sono concentrati (quasi) unicamente sulle ultime parole di Ardern alla fine di una conferenza stampa per lei sofferta («le lacrime» nel titolo), quando si è rivolta alla figlia Neve: «La mamma sarà accanto a te quando comincerai la scuola quest'anno». E poi al compagno Clark: «E ora sposiamoci». Una scelta che ha fatto indignare alcuni, che hanno accusato i media responsabili di voler puntare sulla figura della donna debole, accecati dall’ossessione per il matrimonio e la maternità. «La maniera scelta dai quotidiani per raccontare una notizia ha impatto diretto nella nostra percezione di mondo e contribuisce a smantellare o rafforzare stereotipi – si legge ad esempio sul profilo Instagram di @caraseimaschilista -. Come a dire che Jacinda Ardern desiste piangendo perché le donne non sono adatte a posizioni di leadership e in fondo preferiscono curare la famiglia». Ma a creare scalpore in Gran Bretagna e a livello internazionale è stata soprattutto la BBC. Costretta, a posteriore, a scusarsi e a modificare un titolo sessista: «Le donne possono avere tutto?». Un articolo che descriveva la premier neozelandese come madre lavoratrice. La redazione di BBC World è stata tacciata di «misoginia» e alcuni commentatori hanno messo in evidenza la differenza con la narrazione riservata nel mese di luglio a Boris Johnson, il dimissionario primo ministro sposato tre volte e padre di sette figli.
«Una politica diversa»
Sanna Marin, Simonetta Sommaruga, Jacinda Ardern. Dieci giorni fa, nel suo commento apparso su CdT.ch, Paolo Galli parlava di tre situazioni diverse in tre contesti diversi, con dei punti in comune. «La ricerca di una politica diversa, più a misura d’uomo e di donna, legata alle responsabilità e alle capacità, non alla durata prolungata all’infinito di un incarico, all’attaccamento alla poltrona. Jacinda Ardern è stata la donna giusta nel momento giusto. Ha saputo guidare la Nuova Zelanda tra le difficoltà, ha preso decisioni complesse in fasi inedite e in contesti drammatici. È diventata madre ed è madre, trovando nella maternità la forza di portare al proprio Paese, e non solo, un segnale, sulla necessità di un cambiamento culturale nella conciliabilità tra lavoro e famiglia. E il suo abbandono non indebolisce in nulla la forza di questo messaggio, anzi».
Ma davvero siamo portatori di una cultura maschilista? Ne abbiamo parlato con il politologo Andrea Pilotti, Maître d’enseignement et de recherche all’Istituto di studi politici dell’Università di Losanna e collaboratore dell’Osservatorio della vita politica regionale, oltre che membro dell’Osservatorio delle élite svizzere.
E se fosse stato un uomo?
Partiamo da un quesito, che ritroviamo un po’ alla base della vicenda della premier neozelandese e della narrazione legata alle sue dimissioni: cosa sarebbe successo se a lasciare fosse stato un uomo? «È un interrogativo più che legittimo – risponde Pilotti -. E la risposta è, purtroppo, che difficilmente sarebbe andata nello stesso modo. Ma, innanzitutto, è bene non generalizzare. Non tutti i media si sono comportati nella stessa maniera, anzi. Quello che è successo in alcuni casi, però, è indicativo di pregiudizi di genere molto radicati. Ne emerge una chiara differenza nel trattare quella che è la sfera privata di un politico uomo piuttosto che di una politica donna».
Il politologo, non nasconde la «colpa» di alcuni politici e politiche che «nel processo di mediatizzazione hanno superato il confine tra vita pubblica e privata, non esitando ad approfittare dell’occasione per presentarsi nei loro aspetti più personali, quasi a voler rimarcare una certa vicinanza con i cittadini e le cittadine “comuni”». Atteggiamenti che, inevitabilmente, influenzano il dibattito e distorcono la visione delle cose.
Gli esempi svizzeri
Era il 2009 quando Elmar Ledergerber, acclamato sindaco di Zurigo, annunciò le dimissioni con un anno d'anticipo sulle elezioni comunali per occuparsi maggiormente del figlio 16.enne. «Ledergerber ne sera un papa poule» (non sarà un “papà-chioccia”) titolava Le Temps poco dopo, annunciando la possibilità (poi concretizzatasi) di una carica quale presidente di Zurigo Turismo. «In quel caso alcuni media non avevano nascosto lo stupore per un uomo che lasciava adducendo motivi familiari – commenta Pilotti -. Perché è radicata in noi l’idea che un uomo politico faccia quasi automaticamente carriera» indipendentemente dalla sua situazione familiare. Nel novembre 2017, il vodese socialista Jean Christophe Schwaab annunciava le dimissioni dal Consiglio nazionale dopo sei anni, per occuparsi del figlio di 7 anni con disturbi dello sviluppo. «Padre prima di tutto», titolava allora Le Temps, lodando il «rifiuto del tradizionale schema patriarcale» da parte del politico, una scelta condivisa con la moglie anche per consentire a lei di proseguire l’attività di medico indipendente. Su 24 heures, l'editorialista Joëlle Fabre descriveva la scelta di Schwaab come un «atto politico»: «Sarebbe sbagliato ridurre l'approccio del socialista vodese a un banale atto di autoglorificazione». Lui si era stupito di tutte le dimostrazioni di vicinanza ricevute, assicurando di non voler passare come «esempio di parità tra uomini e donne», ma di essere felice di poter (forse) contribuire ad accendere l’attenzione sulla necessità di migliorare la conciliabilità tra lavoro e vita privata.
Il conservatorismo di genere
Il nostro interlocutore cita pure il «conservatorismo di genere», termine coniato dalla storica Brigitte Studer, già professoressa di storia contemporanea all’Università di Berna e cofondatrice del Centro di studi di genere dell’ateneo, di cui ha presieduto il comitato scientifico tra il 2011 e il 2020. «Si tratta dell’attribuzione di ruoli separata a uomini e donne. Un fattore che influisce sulle donne stesse, che finiscono talvolta per non sentirsi sufficientemente competenti. Un conservatorismo di genere radicato quindi anche nelle donne.
A tal proposito Andrea Pilotti ricorda la testimonianza di Chiara Simoneschi-Cortesi che, con una brillante carriera politica alle spalle anche da presidente del Consiglio Nazionale (la prima donna di lingua italiana), raccontava di avere dubitato sulle sue competenze quando il PPD le aveva annunciato la volontà di candidarla alla Camera bassa del Parlamento federale.
«Dimostrazione del fatto che si tratta di aspetti culturali che in alcune persone si concretizzano in processi inconsapevoli. Anche perché per anni la politica è stata un’istituzione prettamente maschile, basata su regole non scritte, più difficili da modificare. Nel tempo arrivano sempre più segnali positivi di un cambiamento, ma la strada è ancora lunga e la questione non deve essere sottovalutata. È opportuno continuare a insistere sul tema della rappresentanza di genere, che non è affatto solo una questione numerica».
La strada del cambiamento
L’esperienza delle prime donne parlamentari, di cui il politologo si è spesso occupato nelle sue ricerche, dimostra che se gli uomini in politica vengono interrogati sulla loro visione della Svizzera, «dalle donne vogliamo sapere come riescono a organizzare la casa e i figli, come conciliano la loro attività politica con la vita privata». Un processo a volte, appunto, anche inconsapevole e quasi «automatico». Ne è un esempio quanto accaduto recentemente con l’italiana Samantha Cristoforetti. In tuta da astronauta, manda un bacio ai due figli, Kelsi Amel e Dorian Lev, prima di partire per lo spazio e iniziare la sua seconda missione. Lo scatto fa il giro del mondo. E sui social (ma anche su alcuni media) la discussione non è incentrata sulla sua professione, l’ impegno o le sue capacità, ma ci si domanda chi si occuperà dei figli nei cinque mesi in cui lei sarà impegnata sulla Stazione spaziale internazionale. Quasi dimenticando che quei bambini hanno anche un papà. «Non è, ahimè, lo stesso trattamento riservato agli uomini – aggiunge Pilotti -. Ecco perché insisto a sottolineare che si tratta di un problema culturale che va oltre i numeri e le “quote”».
Come si fa a modificare questa mentalità? «È un lavoro costante. Il primo ruolo è della famiglia: crescere i bambini normalizzando la parità di ruoli tra uomo e donna. In casa, a scuola, nelle faccende domestiche, nella carriera lavorativa.
Poi, la scuola, che è l’ambiente in cui le giovani menti acquisiscono gran parte delle loro conoscenze». E, tornando al nostro discorso iniziale, altresì la politica: «Anche in tempi recenti, nel presentare le candidature femminili, alcuni partiti danno l’impressione di considerare l’inserimento di candidate nelle loro liste più come una fastidiosa imposizione. La scelta non è quindi fatta per una reale convinzione dell’importanza di disporre anche di una rappresentanza più equa di genere. È in qualche modo una forma di opportunismo politico, che però nulla ha a che fare con la parità». Per ultimo, e non per importanza, «bisogna prestare attenzione alla comunicazione. Anche se è chiaro che alcune abitudini sono difficili da cambiare. Taluni piccoli accorgimenti permettono tuttavia di adottare un linguaggio più inclusivo (ad esempio, parlando di “deputati e deputate” anziché ricorrere soltanto al termine “deputati” includendo implicitamente uomini e donne), ciò che può sicuramente contribuire a modificare anche inconsciamente certe consuetudini».