Spazi e sicurezza, dignità e tecnologie: palazzo di Giustizia visto dall'interno
Se ne parla da anni. Parecchi anni. Ma il Palazzo di Giustizia di Lugano, che ha bisogno di importanti lavori di ristrutturazione, così come la (forse) futura cittadella della Giustizia da insediare nello stabile EFG, restano «perfetti sconosciuti» ai non addetti ai lavori. Alla vigilia del giorno «X», in cui la politica potrebbe dare una nuova casa alla Giustizia ticinese, li abbiamo visitati.
L’entrata dell’attuale Palazzo di Giustizia siamo abituati a vederla, quasi ogni settimana, nelle immagini registrate dai colleghi di Teleticino o del Quotidiano intenti a seguire la cronaca giudiziaria del nostro cantone. Fotografie e video da dentro Palazzo, invece, non sono permessi. Fatta eccezione per gli addetti ai lavori, dunque, le condizioni di salute dello stabile restano sconosciute ai più. Ecco perché sono proprio gli addetti ai lavori a lamentare, da anni, condizioni «indecorose» a Palazzo di Giustizia.
E in effetti, oggi come oggi, entrando a Palazzo la situazione che ci si presenta davanti non è certo delle migliori. C’è chi, nei corridoi prima di iniziare il giro turistico concesso al CdT, fa notare l’orologio senza lancette, chi parla di «indecenza» riferendosi allo stato di alcuni uffici, chi parla di «preistoria» in merito alle tecnologie presenti nelle aule di tribunale (in barba alla futura digitalizzazione della Giustizia) e chi si lamenta dei rumori. Già, perché proprio in questo periodo diversi operai sono intenti a lavorare alla cosiddetta «polizia del fuoco» per mettere in sicurezza lo stabile in caso di incendio. Ma questa è un’altra storia.
La prima fermata del «tour» è nella sala che, anche dal punto di vista simbolico, più rappresenta la Giustizia ticinese: l’aula penale. Questa, va detto, è tutto sommato in buone condizioni. Non è forse più all’ultimo grido (le panche datate, la moquette usurata e lo stereo anni Ottanta la tradiscono), ma non è nemmeno «indecorosa».
È proprio qui, però, che il presidente del Consiglio della Magistratura, Damiano Stefani, ci racconta nel dettaglio il problema più importante dell’attuale Palazzo: gli spazi a disposizione, decisamente insufficienti. «A parte il fatto che si tratta di uno stabile vetusto, uno dei problemi principali è proprio quello della disponibilità di spazi, che adesso non c’è più», spiega Stefani. «Il tribunale e il ministero pubblico si sono ingranditi molto negli ultimi anni. E ora, concretamente, non ci sono più spazi per collocare i collaboratori. Siamo arrivati al limite fisico dello stabile».
Un piano dopo l’altro
Percorrere in lungo e in largo i sei piani che compongono lo stabile che si affaccia su via Pretorio lascia infatti, ai non addetti, una certa sensazione di smarrimento. Alcuni uffici, per mancanza di spazi, sono stati dislocati ben lontani da dove dovrebbero stare. La suddivisione in base al settore – detto in soldoni – appare a tratti caotica a chi non è abituato a navigare tra i corridoi di Palazzo. Come dire: dove si trova uno spazio disponibile ci si infila ciò che si può.
Ed è così, ad esempio, che i praticanti del ministero pubblico si trovano nei sotterranei, assieme agli archivi e ai locali tecnici. Ma non solo: le udienze per la conciliazione penale sono anch’esse finite al piano «meno uno». Spazi angusti, non certo idonei per discussioni in cui, sovente, la tensione è già alta e il disagio per i cittadini coinvolti è palpabile. Non occorre essere specialisti per capire che trovarsi in una saletta al «meno uno», schiacciati tra un giudice e un paio di avvocati, per tentare di difendere la propria posizione dinanzi alla Giustizia, non sia cosa piacevole.
Dai sotterranei, saliamo piano dopo piano ai livelli superiori. E anche qui, il Palazzo datato 1969, presenta non pochi problemi. Dai cavi che spuntano dal soffitto al terzo piano, alla muffa sul soffitto del quarto piano. Su su fino all’ultimo piano, dove troviamo la «famosa» vasca di contenimento. Un recipiente in acciaio inox, di un metro per un metro, fissato sul soffitto di un ufficio, dal quale parte un tubo che scarica l’acqua che penetra dal tetto quando piove, riversandola poi (come una sorta di improvvisata grondaia interna) fuori dall’edificio. Durante il nostro giro, non è mancato neppure chi ha raccontato di essersi trovato, una mattina, una parte del plafone sulla scrivania...
Certo, non è mai morto nessuno per qualche crepa in un muro o per un’infiltrazione d’acqua. Ma, come ci hanno fatto notare più volte durante la visita, tutti questi problemi fanno sì che il terzo potere dello Stato oggi non possa più presentarsi con dignità al cittadino.
Senza dimenticare i problemi di sicurezza. Al momento, infatti, i controlli all’entrata sono stati organizzati con la presenza di un agente, una scrivania, un armadio e qualche pannello. Sicurezza da rafforzare anche perché, ci è stato raccontato, qualche anno fa non è mancato il tizio che (pur non essendo malintenzionato) è entrato nell’edificio con una pistola nel sacco. E ciò, in un Palazzo di Giustizia, è quasi inutile dirlo, non va bene.
Detto dello stabile ormai vetusto, degli spazi che non ci sono e della sicurezza da rafforzare, un altro tasto dolente riguarda la digitalizzazione. Già, perché come ci spiega la capo Divisione della Giustizia, Frida Andreotti, con il progetto avviato sul piano federale «Justitia 4.0» il Cantone è sostanzialmente tenuto a implementare, a partire dal 2027/2028, la completa digitalizzazione della Giustizia. Ma, come fatto invece notare da Damiano Stefani, «i cavi nelle aule di Palazzo sono essenzialmente dei vecchi cavi telefonici. Non ci sono il Wi-Fi e la possibilità di trasmettere importanti quantità di dati». Insomma, semplicemente «lo stabile non ha un’infrastruttura adeguata per procedere con la digitalizzazione».
A qualche metro di distanza
Come visto, dunque, i motivi per dare una nuova casa alla Giustizia ticinese – perlomeno dal punto di vista della Giustizia stessa – sono almeno quattro: gli spazi insufficienti, la sicurezza, la digitalizzazione e, non da ultimo, la dignità del terzo potere dello Stato.
Motivo per cui, come noto, gli occhi della politica (del Dipartimento delle istituzioni prima, del Parlamento ora) sono puntati sullo stabile EFG, situato a pochi passi dall’attuale Palazzo di Giustizia. Stabile EFG che, su concessione della banca, abbiamo potuto visitare assieme a Andreotti, Stefani e il presidente del Tribunale d’appello Damiano Bozzini.
Ora, durante la nostra visita, per «policy» della banca, non abbiamo potuto fotografare l’interno dell’edificio. Ma, forse, l’immagine più significativa sarebbe comunque stata un primo piano del viso di Stefani e Bozzini all’entrata dello stabile. «È un altro mondo», hanno detto in coro. Non occorre, anche qui, essere architetti o ingegneri per accorgersi della differenza. Se il «vecchio» stabile mostra oggi, da dentro e da fuori, tutti i suoi 55 anni, lo stabile EFG, perlomeno agli occhi del profano, potrebbe essere stato costruito qualche anno fa, dieci al massimo. E invece di anni ne ha già 36. E, non a caso, gli elogi all’architetto Botta, durante la visita, non sono certo mancati.
Sul piano della dignità del terzo potere, beh, c’è poco da dire. Anche solo guardando dall’esterno l’edificio, l’impatto visivo è tutt’altra cosa rispetto al «vecchio» stabile. E l’interno non è da meno, tra «hall» d’entrata molto spaziose, dettagli curati, pavimenti in marmo e rifiniture in legno. La divisione in quattro blocchi distinti, essenzialmente uno uguale all’altro, permette poi di illuminare a dovere ognuno dei cinque piani dove si trovano gli uffici. Questi ultimi completamente rimodulabili, in termini di spazio, in base alle esigenze di chi li occupa. Il sistema di sicurezza, tra le tante telecamere e gli ingressi controllati, è anch’esso al passo con i tempi. E qui, di certo, il cliente non può circolare dove vuole. Ma, d’altronde, ci troviamo in una banca. E la stessa cosa, va da sé, vale per l’impianto informatico.
Il momento di decidere
L’impressione generale, passando dal «vecchio» Palazzo a quello (forse) nuovo, è dunque di fare un balzo in avanti di almeno una quarantina d’anni. Se poi questo balzo sarà quello che la politica vorrà concedere alla Giustizia, non spetta certo a noi dirlo. Un pensiero condiviso dal presidente della Magistratura: «Non abbiamo le competenze per dire se sia o meno la soluzione giusta. Ma sappiamo che abbiamo un problema e che sono anni che se ne parla. C’è voluto meno tempo per progettare la seconda canna del San Gottardo che per trovare una soluzione qui. Quindi per noi, come Magistratura, è importante che si trovi una soluzione adesso. Decidere quale sia questa soluzione è una responsabilità della politica».