«300 franchi non bastano»: gravi conseguenze per il Ticino

Il Consiglio di Stato dice chiaramente no, su tutta la linea, ad ogni intervento finalizzato a ridurre il canone radiotelevisivo. Lo fa cassando senza minimamente avallare l’indirizzo del Consiglio federale che tramite ordinanza aveva proposto una soluzione intermedia tra il canone odierno di 335 franchi e la proposta contenuta nell’iniziativa popolare «200 franchi bastano», fissando l’asticella a 300 franchi.
In una lettera di sei pagine datata 31 gennaio e indirizzata ad Albert Rösti, direttore del Dipartimento federale dell’ambiente, dei trasporti, dell’energia e delle comunicazioni (DATEC), il Governo ticinese difende a spada tratta lo statu quo perché «qualsiasi riduzione del canone radiotelevisivo aggraverebbe la già difficile situazione economica della SRG SRR e condurrebbe inevitabilmente a un rapido sgretolamento del servizio pubblico, essenziale per la coesione del nostro Paese plurilingue e pluriculturale».
Nessuna apertura
Nella missiva non trova spazio alcuna apertura nei confronti dell’iniziativa popolare che in Ticino ha raccolto 30 mila firme. In primis viene espresso un no alla fuga in avanti nella forma dell’ordinanza, perché, prima di compiere questo passo «è bene attendere il dibattito parlamentare sull’iniziativa “200 franchi bastano” e la discussione su un eventuale controprogetto». La proposta posta in consultazione lo scorso novembre dal Consiglio federale aveva lo scopo di scongiurare che alle urne finisse anche la proposta con la riduzione maggiore.
L’Esecutivo cantonale mette già le mani in avanti: «Dovesse essere decisa una riduzione del canone radiotelevisivo, – si legge – riteniamo che a salvaguardia della comprensione e della coesione nazionale dovranno essere previste delle compensazioni a tutela delle minoranze».
I piani di Albert Rösti
In dettaglio, l’iniziativa popolare «200 franchi bastano» chiede di esentare le società e le imprese dal pagamento del canone; inoltre, chiaramente, di diminuire il balzello dagli attuali 335 franchi a 200 franchi. Tuttavia, la ripartizione dei proventi del canone alle emittenti radiofoniche e televisive private rimarrebbe invece invariata. Il comitato che ha lanciato l’iniziativa riunisce esponenti dell’UDC, dei giovani PLR e dell’Unione svizzera delle arti e mestieri (USAM) e ha raccolto in totale 126.290 firme valide, di cui ben 29.233 dal Ticino.
Il Consiglio federale, con la sua controproposta (e non tramite controprogetto), ha giocato d’anticipo sul Parlamento, che ancora non ha trattato l’iniziativa. Secondo i piani dell’Esecutivo, il canone per le economie domestiche deve scendere nel 2027 da 335 a 312 franchi e in seguito – a partire dal 2029 – a 300 franchi. Oltre a ciò, saranno esentate le imprese con un fatturato annuo fino a 1,2 milioni di franchi (attualmente la soglia di esenzione è di 500 mila franchi).
Gravi conseguenze sistemiche
Proprio su questa proposta scade oggi il periodo di consultazione. Il dibattito ha infiammato anche gli Esecutivi cantonali, con San Gallo e Ginevra che han sostenuto la proposta di Rösti e altri – ad esempio i Grigioni – che l’hanno invece rispedita al mittente. Il Consiglio di Stato ticinese ha deciso – senza se e senza ma - di schierarsi nettamente a favore della RSI e di tutta la SSR, opponendosi a ridurre di 35 franchi all’anno il canone. «Il Consiglio di Stato ritiene infatti che le minori entrate comporterebbero gravi conseguenze sistemiche dirette e indirette sull’intero Paese», avverte il Governo, secondo cui il compromesso ideato da Rösti «oltre a una massiccia riduzione del personale SSR e della qualità, genererebbe un ulteriore ridimensionamento del panorama mediatico e del servizio pubblico svizzero, intaccando profondamente e pericolosamente ampiezza e qualità dell’offerta in termini di informazione, cultura, formazione, intrattenimento, sport».
Avvantaggiati
Il Consiglio di Stato ricorda che la Svizzera italiana è particolarmente avvantaggiata dalle modalità di distribuzione delle quote del canone: «Nella regione italofona comprendente anche il Canton Ticino, dove risiede circa il 4% della popolazione (metà dell’8% circa di popolazione complessiva di lingua italiana residente in Svizzera), viene raccolto circa il 4.5% del canone totale destinato alle emittenti SSR e viene redistribuita una quota corrispondente a circa il 22%. Appare dunque palese come la RSI dipenda vitalmente da questo sistema». Non solo Comano e Besso, tuttavia, giovano della presenza della RSI. A beneficiare sono anche istituzioni culturali, manifestazioni e un valore aggiunto all’economia regionale che generano posti di lavoro e indotto.
Una riduzione del canone, per i cinque consiglieri di Stato, spingerebbe la SSR a centralizzare alcuni servizi, dislocandoli fuori dal territorio della Svizzera italiana. «Un tale scenario avrebbe conseguenze molto negative a livello economico e culturale sul Ticino e su tutta la Svizzera di lingua italiana, cancellando numerosi posti di lavoro qualificati presso RSI e svariate filiere affini».
Via 200 posti in Ticino
Negli scorsi mesi il direttore generale della SSR, Gilles Marchand, ha minacciato un taglio di 900 impieghi in tutte le regioni se il canone a 300 franchi (dal 2029) dovesse divenire realtà. E alla RSI? Anche il Consiglio di Stato si lascia andare in previsioni pessimistiche. «Per quanto riguarda la radiotelevisione in lingua italiana, si stima che la RSI sarebbe chiamata a tagliare per 40-50 milioni di franchi annui, equivalenti a circa 150-200 posti di lavoro, con una riduzione del personale che avverrebbe solo in minima parte attraverso la fluttuazione naturale e che genererebbe conseguenze negative sia sull’indotto che in termini di costi economici e sociali per tutta la collettività».
Il Consiglio di Stato parla del canone come «un importante strumento di politica culturale svizzera, fondamentale ai sensi della coesione nazionale, della promozione della pluralità linguistica e culturale e della tutela delle minoranze che, unite, compongono il Paese». A suo avviso, si aprirebbero infatti le porte a «proposte non nazionali nella stessa lingua (ad esempio da emittenti italiane nella Svizzera italiana), e non da altre emittenti svizzere di lingua diversa».
Tutto da buttare, dunque? Per il Consiglio di Stato, sì. Il canone deve rimanere a 335 franchi.