Nessun limite agli influencer, la Polizia di Instagram non ci sarà

Eventi esclusivi, cene al ristorante, hotel con viste mozzafiato, vestiti firmati, criptovalute e gioielli. Il «mondo social», apparentemente perfetto, rimane poco trasparente. Quanto guadagnano gli influencer, che ora preferiscono definirsi imprenditori o creatori digitali? Senza fare paragoni con la vicina Italia (che ha ben altri numeri rispetto al «mercato» elvetico), i facili guadagni non sembrano essere all’ordine del giorno.
Dalla Svizzera tedesca, la stampa confederata stima però che già a partire dai 5 mila follower si possano guadagnare tra 250 e 2.000 franchi per ogni post sui social. In alcuni casi si possono guadagnare anche 2.500 franchi per i contenuti pubblicati su Instagram, Facebook , YouTube, TikTok o altre piattaforme. Sono però pochi, in realtà, gli influencer elvetici che davvero vivono esclusivamente dei cosiddetti «Paid post». D’altro canto, non tutti sono consapevoli che dietro a questi contenuti ci siano importanti flussi di denaro e numerose campagne promozionali. La figura dell’influencer nella comunicazione commerciale è stata sdoganata da tempo a tutti i livelli, ad esempio da Svizzera Turismo e più recentemente dalle FFS.
Carattere pubblicitario
L’Agcom, il Garante delle comunicazioni italiane, lo scorso gennaio ha dettato alcune linee guida sull’attività degli influencer in Italia. A contribuire a questa stretta è stato anche il «caso Pandoro», che ha coinvolto Chiara Ferragni. Una delle regole prevede ad esempio che gli influencer sono tenuti a riportare una scritta che evidenzi chiaramente la natura pubblicitaria del contenuto: si può ad esempio trovare « #adv» (ovvero advertising), «sponsorizzato» e «partnership pubblicitaria a pagamento».
In Svizzera, una norma di questo tipo non esiste. E continuerà a non esserci: la scorsa settimana il Consiglio nazionale ha infatti respinto a larga maggioranza una mozione di Rumy Farah (PS/SO). La richiesta della consigliera nazionale socialista? Creare una base legale, con regole chiare e vincolanti, che promuova la trasparenza e la correttezza nell’ambito della pubblicità degli influencer in Svizzera.
Uno su cinque
Stando a Farah, «attualmente solo una minoranza dei partenariati commerciali conclusi dagli influencer è dichiarata in maniera trasparente». A spiegare meglio questo fenomeno è anche un’indagine - pubblicata lo scorso febbraio - sui post apparsi sui social media di 576 influencer. Il risultato? Il 97% ha pubblicato post con contenuti commerciali, ma solo il 20% li ha contrassegnati sistematicamente come pubblicità. Uno su cinque. La ricerca è stata condotta dalla Commissione europea e dalle autorità nazionali per la tutela dei consumatori di 22 Stati membri, della Norvegia e dell’Islanda.
Per Farah è chiaro: «I consumatori non devono essere ingannati con pubblicità occulta, tanto più se il gruppo target è costituito da giovani». La pubblicità, pertanto, deve essere contrassegnata e dovrebbe essere possibile riconoscere che si tratta di un contributo pubblicitario. Di tutt’altro avviso Governo e Parlamento, che non hanno intenzione di istituire la «polizia di Instagram», come l’ha definita il Blick.
Per il Consiglio federale, «la situazione giuridica attuale è sufficiente (sulla base della legge contro la concorrenza sleale, ndr), per cui sarebbe sproporzionato emanare una regolamentazione speciale e incaricare un’autorità statale di controllare in maniera proattiva la pubblicità degli influencer». A vigilare sulla situazione c’è anche la Commissione Svizzera per la Lealtà (CSL), l’organo di autocontrollo nel settore pubblicitario e nella comunicazione commerciale.
Il destinatario medio
«Abbiamo già trattato in varie occasioni i reclami relativi alla pubblicità degli influencer e abbiamo sviluppato una prassi chiara», ci spiega il consigliere nazionale Philipp Kutter (Centro/ZH), presidente della CSL. «Non esiste un obbligo generale di etichettatura per le comunicazioni commerciali se sono chiaramente riconoscibili come pubblicità». A valere è soprattutto la legge contro la concorrenza sleale, secondo cui è «illecito qualsiasi comportamento o pratica d’affari ingannevole, o altrimenti lesivo delle norme della buona fede, che influisce sui rapporti tra concorrenti o tra fornitori e clienti».
La Commissione Svizzera per la Lealtà, per valutare i reclami, tiene conto in particolare di tre aspetti: «La comprensione media del gruppo target di riferimento (i cosiddetti «destinatari medi»), l’impressione generale e il tipo di media interessato», sottolinea Kutter. A suo avviso, l’attuale regolamentazione è già sufficiente (il consigliere nazionale zurighese non ha sostenuto l’atto parlamentare di Farah). «È importante che la pubblicità sia riconoscibile come tale per il destinatario medio. Tuttavia, non è necessario etichettare specificamente questa pubblicità».