No alle class action nella legge: «La Svizzera non è l'America»

Fu uno scandalo da miliardi di dollari e di euro, con condanne, multe e risarcimenti. Ma non in Svizzera. Il caso delle manipolazioni dei gas di scarico del gruppo Volkswagen, ovvero il Dieselgate, è scoppiato nel 2015 e negli ultimi dieci anni la vicenda è arrivata sui banchi dei tribunali di tutto il mondo.
Solo in Svizzera, si contano circa 175 mila potenziali vittime di questa truffa. Di queste, oltre 6 mila persone (supportate legalmente dalle associazioni dei consumatori) hanno chiesto un risarcimento. Chi l’ha ottenuto? Un solo individuo, nel canton Ginevra. In una sentenza della Corte di Giustizia di Ginevra del giugno 2023, l’importatore AMAG è stato condannato a ritirare il veicolo e a pagare alla parte lesa 18 mila franchi, oltre alle spese processuali e legali.
A bocca asciutta
Tutti gli altri, sono rimasti a bocca asciutta. In Svizzera, infatti, non esiste la possibilità di intentare un’azione collettiva (chiamata anche class action) per far valere in tribunale una pretesa di risarcimento per i cosiddetti «danni di massa e diffusi». Oggi, il singolo cliente può fare causa, ma deve anche assumersi il rischio finanziario.
In futuro, la class action continuerà a non essere uno strumento per la giustizia elvetica. Il fronte borghese al Nazionale oggi ha infatti deciso (con 112 voti contro 74 e 4 astenuti) di non entrare in materia su un progetto di legge che mirava a introdurre questa possibilità. L’infinito iter ha portato a un risultato: la maggioranza della Commissione degli affari giuridici del Nazionale - seguita dal plenum - è giunta alla conclusione che «gli strumenti di tutela giurisdizionale collettiva proposti non sono adatti al sistema giuridico svizzero».
«Finanziatori di contenziosi»
In realtà, alcuni strumenti simili esistono già in Svizzera (ad esempio l’articolo 71 del Codice di diritto processuale civile, ndr), ha spiegato il consigliere nazionale Philipp Matthias Bregy (Centro/VS), che ha parlato a nome della commissione. Il progetto del Consiglio federale prevede che almeno dieci «interessati» autorizzino un’organizzazione (deve essere senza scopo di lucro ed esistere da almeno 12 mesi) a far valere una pretesa di risarcimento. Si potrà anche giungere a un accordo tra le parti: una volta dichiarata vincolante dal giudice, questa «transazione giudiziaria collettiva» varrà per tutte le persone interessate che hanno aderito alla class action.
Per Bregy, c’è però il rischio di una «americanizzazione» del sistema giuridico elvetico: alcune organizzazzioni potrebbero specializzarsi nella promozione di cause estremamente pregiudizievoli per l’economia. Il capogruppo del Centro fa riferimento all’Europa: alcune grandi società (come Burford Capital o Harbour Litigation Funding, attive ora anche in Europa) collaborano con grandi ONG per promuovere class action. Il volume dei contenziosi di queste azioni collettive - nel continente - è stimato in 1,6 miliardi di franchi. «E la tendenza è al rialzo», critica Bregy, secondo cui si alimenterebbe anche in Svizzera il business di questi «finanziatori di contenziosi». Potrebbe essere il caso nel settore della protezione del clima o della protezione dei dati.
La patata bollente
«L’azione collettiva, trattata come una patata bollente, non è per nulla equiparabile alla class action americana. L’Europa si è già dotata di questo strumento senza incorrere in alcuna distorsione, si tratterebbe semplicemente di colmare una lacuna importante per i consumatori svizzeri», critica Antonella Crüzer, segretaria generale dell’Associazione dei consumatori della Svizzera italiana (ACSI). L’obiettivo, aggiunge, è che si vada a ricorrere a questo strumento legale solo in caso di reale necessità. Ma già l’esistenza di tale possibilità avrebbe un effetto deterrente. «Il progetto del Consiglio federale è moderato: sarebbero ammessi dal tribunale solo i casi che rispettano determinati criteri e promossi dalle associazioni di categoria, non da un collettivo di avvocati». Crüzer fa notare un aspetto: quella del Nazionale era una decisione di principio. «Il Parlamento (il dossier passa ora sui banchi degli Stati, ndr) avrebbe tutta la libertà di decidere in che direzione portare il progetto di legge. Ma già quanto elaborato dall’Esecutivo è lontano dalla class action americana. Non c’è nemmeno il rischio di assistere alle derive statunitensi».
Il centro fitness
A suo avviso, ci sono innumerevoli esempi che dimostrano quanto sia necessario poter disporre dell’azione collettiva come strumento. «Il Dieselgate, il caso Obligo (una società accusata di utilizzare procedure non trasparenti per far pagare abbonamenti indesiderati a siti web pornografici, ndr), ma anche la chiusura di una palestra di fitness. Capita che i clienti sottoscrivano un abbonamento annuale, ma poi non possano usufruire del servizio. Oggi ogni consumatore per ottenere un risarcimento deve arrangiarsi. Dovrebbero intentare singolarmente una causa, per una somma che è modica rispetto al complicato iter processuale che costa tempo e denaro».
Il fronte borghese e dell’economia, però, si oppone. Troppo elevato il rischio di abusi. «Di questo strumento potrebbe beneficiarne pure l’Usam, che potrebbe difendere le PMI da chi non opera rispettando le regole», afferma Crüzer, secondo cui «la libertà di mercato sta prevalendo sulla tutela dei diritti dei consumatori, ma ciò non favorisce né una concorrenza leale né tantomeno un mercato sano».