Dopo la festa, lo stupro

Il processo si è chiuso tra le lacrime degli imputati, ma quella sera di luglio di quattro anni fa, a margine di una festa campestre nel Luganese, è successo qualcosa che non doveva succedere. Uno stupro. A farne le spese una giovane che dapprima, ubriaca, aveva avuto un rapporto sessuale con due ragazzi, un 31.enne e un 27.enne del Luganese, mentre un loro amico, oggi 25.enne, si era limitato a guardare. Dopo che la ragazza aveva detto no («basta, siete fidanzati») i due si erano fermati, ma uno di loro, rimasto solo con lei, l’aveva costretta a un secondo rapporto. La Corte delle assise criminali, presieduta dal giudice Siro Quadri, ha però ritenuto che proprio quest'ultimo rapporto altro non fosse che una violenza carnale vera e propria e ha condannato l’imputato, scoppiato a piangere ascoltando la sentenza, a 30 mesi di carcere, di cui 6 da scontare. La difesa ha già annunciato appello.
Brilla, non totalmente ubriaca
Partiamo proprio dalle lacrime. Quelle di sollievo versate dagli altri due imputati, accusati di atti sessuali con persone incapaci di discernimento o inette a resistere ma prosciolti poiché mancava una componente essenziale del reato, ovvero l’ubriachezza totale della giovane. Ma soprattutto quelle di sofferenza della vittima, non presente in aula, che quella sera di quattro anni fa, durante il secondo rapporto, era scoppiata a piangere, inerme. Dalla componente emozionale si passa giocoforza al diritto: gli accertamenti sul probabile tasso alcolemico della vittima, patrocinata dall’avvocata Letizia Vezzoni, hanno però stabilito che al momento dei fatti lei fosse sì brilla, ma non inetta a resistere. Di qui il proscioglimento del 27.enne (difeso dall’avvocata Sandra Xavier) e del 25.enne (rappresentato dall’avvocato Massimo De’Sena), dal momento che è venuto a mancare un elemento fondamentale del reato (il Tribunale federale parla ad esempio di persone praticamente dormienti). Diverso il discorso per il 31.enne, difeso dall’avvocato Niccolò Giovanettina e prosciolto anche lui dall’accusa di atti sessuali con persone inette a resistere per il primo episodio, ma condannato per violenza carnale per il secondo. «In quella fase, lui allontana il 25.enne e resta da solo con la vittima, sapendo benissimo che lei non voleva nulla da lui. Lo aveva detto prima, ma lui con un espediente ha insistito, approfittando del fatto che lei fosse brilla per metterla in una situazione da cui non poteva uscire. Sdraiata in macchina e alla sua mercé. L’auspicio della Corte – ha concluso il giudice – è che fatti come questi non si ripetano. Se si conosce una persona ubriaca a una festa, la si aiuta e la si riaccompagna a casa, non ci si approfitta di lei». La versione dell’imputato, che ha sempre parlato di sesso consenziente, non è stata ritenuta credibile. D’altro canto «la vittima ha sempre fornito una versione lineare e coerente. Anzi, si è anche autocolpevolizzata, e questo succede sempre alle vittime di violenza sessuale».
La ricerca della verità
Durante la sentenza è avvenuto anche un fatto decisamente inusuale. Il giudice ha stigmatizzato le critiche della difesa all’operato del procuratore pubblico Zaccaria Akbas, il quale aveva modificato l’atto d’accusa (è suo diritto, va precisato) aggravando la posizione del 31.enne. «Hanno parlato di ‘un cattivo esempio di giustizia’ e di un ‘procedimento deragliato’. Per la Corte, queste polemiche sono inutili e fatte nella sede sbagliata. Se si ritiene che il sistema giudiziario non funzioni, si può ricorrere o ci si può rivolgere all’autorità di vigilanza. Il Codice di procedura penale dà molta importanza alla ricerca della verità. Mal si comprende perché non siano stati apprezzati gli sforzi da noi intrapresi per capire che cosa sia successo la notte dei fatti».
Necessari due dibattimenti
Per arrivare a una sentenza sono stati necessari due processi (entrambi a porte chiuse). Sette mesi fa, la Corte aveva disposto l’assunzione di nuove prove poiché non era stato possibile stabilire con certezza l’incapacità di resistere della vittima al momento dei fatti. Una perizia (la seconda)aveva ipotizzato che non vi fosse un’incapacità totale di resistere. Dal momento che il reato contestato ai tre imputati richiede che la vittima sia completamente ubriaca, il magistrato aveva modificato l’atto d’accusa, estendendo gli addebiti nei confronti del 31.enne ai reati di violenza carnale e coazione, riferiti al secondo rapporto sessuale.