L’estremo paradosso: adesso l’Italia vuole abolire il frontalierato
La luna di miele tra la politica italiana e i frontalieri è finita. Da un pezzo. E ha cambiato strategia pure la Lega di Matteo Salvini, il partito che più di altri - da molti anni a questa parte - sembrava frapporsi a qualunque scelta potesse anche soltanto minimamente penalizzare i lavoratori che dalle province di confine si recano ogni giorno in Svizzera.
Gli ultimi segnali, i più recenti, sono inequivocabili. Prima la firma della revisione dell’accordo fiscale del 1974, riforma che comporterà un aggravio molto pesante delle imposte dei cosiddetti “nuovi” frontalieri. Poi il limite del 25% al telelavoro, a fronte di una richiesta quantomeno doppia proveniente da sindacati e imprese elvetiche. Quindi, la cosiddetta “tassa sulla salute”, il contributo di 2mila euro che i “vecchi frontalieri” saranno chiamati a pagare per sostenere la spesa sanitaria delle Regioni. In ultimo, nascosto tra le pieghe di un collegato alla riforma fiscale - il numero 90, in discussione da novembre e noto a pochissimi addetti ai lavori - la previsione di una clamorosa abolizione, dal punto di vista fiscale, del concetto stesso di frontalierato con l’istituzione della cosiddetta «frazione di giorno», un meccanismo che, in prospettiva, potrebbe essere dirompente.
Un disegno molto chiaro
Toni Ricciardi, storico delle migrazioni all’Università di Ginevra e deputato del Partito Democratico eletto nel settembre 2022 nel collegio estero europeo, è il parlamentare che ha “svelato”, durante una riunione della commissione Finanze a Montecitorio, il rivoluzionario obiettivo del Governo italiano, impegnato come mai prima a blindare il proprio mercato del lavoro interno. «Introdurre il principio della frazione quotidiana per stabilire il regime fiscale cui un frontaliere dev’essere assoggettato - dice Ricciardi al Corriere del Ticino - significa, in parole povere, che non conterà più dove si lavora o dove si pagano le tasse, ma soltanto quante ore si trascorrono in Svizzera e quante in Italia. Banalmente: 8 ore in ufficio o in fabbrica e due ore di viaggio non sarebbero sufficienti, dato che le altre 14 ore della giornata si passerebbero in Italia. Così si smonta il concetto stesso di frontaliere».
Siamo davanti a un disegno molto chiaro, che l’Italia peraltro non tende nemmeno a mascherare o a nascondere.
«È evidente come le ultime misure vadano tutte in una stessa, identica direzione - conferma al Corriere del Ticino Andrea Puglia, responsabile frontalieri dell’OCST - c’è stato un cambio di rotta che non riguarda soltanto l’inasprimento della leva fiscale: la politica italiana ha deciso in particolare di cedere alle richieste delle aziende. Basta vedere quanto accaduto con l’accordo sul telelavoro: il limite del 40%, simile a quello che la Svizzera ha siglato con la Francia, è stato negato sotto la spinta lobbistica proveniente dalle associazioni d’impresa e di categoria, preoccupate soprattutto di evitare ulteriori incentivi alla fuga all’estero di lavoratori».
Le ragioni principali di questa svolta, secondo Toni Ricciardi, sono almeno due. «La prima - dice lo storico e parlamentare PD - è relativa a una macro-questione di finanza pubblica: l’Italia ha un bisogno disperato di trovare risorse, e scava quindi al fondo di ogni possibile barile pur di mettere a bilancio nuove entrate. La seconda riguarda invece le politiche industriali: bisogna dare risposte al sistema imprenditoriale che fatica enormemente a trovare manodopera. Fin qui, le cose reggevano perché in Italia si è tenuto basso il costo dei salari; ma grazie anche a una mobilità accentuata, le persone preferiscono andare altrove, vale a dire dove trovano condizioni migliori».
Dalla Lombardia al ponte
C’è una terza ragione, interamente politica, che - a detta di Ricciardi - ha prodotto l’inversione di rotta degli ultimi tempi. «Il capo della Lega si è giocato tutto sulla questione del ponte sullo Stretto. È su questo che il Carroccio ha puntato, e le conseguenze sono inevitabili: quando la coperta si fa corta, qualcuno rimane scoperto. È toccato ai frontalieri. D’altronde, non è un caso che il primo firmatario della proposta di legge sulla tassa della salute dei frontalieri sia stato Domenico Furgiele, imprenditore edile di Lametia Terme eletto nel collegio plurinominale della Calabria».
Le pressioni delle aziende
Il punto è che di fronte a una simile, evidentissima manovra, la risposta di chi è “sotto attacco” appare paradossalmente complice.
«La mia impressione - dice ancora Andrea Puglia - è che un’azione miope da parte della politica locale abbia favorito reazioni penalizzanti verso i frontalieri, qualcosa che alla fine ci danneggia. Prendiamo, ad esempio, la tassa sulla salute che i “vecchi” frontalieri saranno chiamati a pagare quale contributo alla sanità della Lombardia. In Ticino, non si è sentita una sola voce contro. Eppure, si è trattato di una palese violazione di quanto pattuito dai due Stati soltanto pochi mesi fa. Per non parlare dell’home-office: a causa dell’accordo sul 25% massimo di tempo di lavoro effettuabile da casa, molte aziende ticinesi rischiano di perdere profili qualificati, i quali preferiscono tornare in Italia». Se prima, a Roma o a Milano, c’era «una politica che contrastava la narrazione ticinese e svizzera anti-frontalieri, adesso le cose sono totalmente diverse - conclude Puglia - purtroppo, non tutto il Ticino sembra aver colto la novità».
Un secolo e mezzo di storia migratoria, insiste Toni Ricciardi - che su questo tema ha svolto gran parte del suo lavoro accademico e di ricerca all’Università di Ginevra - «non pare aver insegnato alcunché: i meccanismi dei sistemi economici della migrazione non cambiano». Se a parità di retribuzione si sceglie sempre dove si vive o si lavora meglio, di fronte a differenze salariali elevate il movimento è automatico. «Le statistiche ci dicono che soltanto un terzo di coloro che si sono spostati in Svizzera è altamente qualificato. Siamo di nuovo all’interno di una dinamica nota. Il rapporto tra Italia e Svizzera, in tema di salari, è tornato agli anni Sessanta del secolo scorso, quando gli operai specializzati del Sud, ma anche veneti o bergamaschi, emigrarono nella Confederazione per guadagnare molto di più».
Che cosa succederà nel breve periodo, è difficile dirlo. Le nuove norme produrranno i primi effetti concreti, probabilmente, soltanto nel 2025. Ma il clima è cambiato. L’Italia, o almeno chi governa in questo momento la Penisola, ha scelto deliberatamente di frenare in ogni modo possibile il frontalierato, fino a ipotizzarne addirittura la fine ope legis.«Manca del tutto una ratio, una logica - conclude Ricciardi - la lunga storia dei frontalieri in Ticino ha significato benessere per i Comuni italiani oltreconfine e garantito competitività al sistema economico-produttivo del cantone. Personalmente, non escludo che molti frontalieri decidano, in futuro, di lasciare definitivamente l’Italia e di trasferirsi in Ticino».