Ma quale ripetuto tentato omicidio: «Non ci sono riscontri agli atti»

«Qui il reato più grave è la guida in stato d’inattitudine. Stupisce trovarsi di fronte a un’ipotesi di tentato omicidio ripetuto». Ipotesi che infatti la Corte delle assise criminali presieduta dal giudice Amos Pagnamenta ha estremamente ridimensionato, quando non scartato del tutto. Non si è trattato quindi di un padre ubriaco ed esasperato che con una certa energia ha cercato più volte di ferire il figlio al culmine di un litigio lo scorso 24 maggio a Biasca, bensì di un padre ubriaco che ha avuto sì uno scatto d’ira, ma mai l’intenzione di far del male. E quindi, se la procuratrice pubblica Chiara Buzzi chiedeva una condanna a quattro anni da scontare (un’ipotesi peraltro invisa allo stesso figlio, che in aula ha chiesto clemenza nei confronti del genitore), la Corte ha infine condannato l’uomo, un 56.enne ticinese patrocinato dall’avvocata Sandra Xavier, a una pena pecuniaria sospesa di 180 aliquote per tentate lesioni semplici per dolo eventuale, minaccia, lesioni semplici qualificate per dolo eventuale, guida in stato d’inattitudine e ingiuria. Gli è stata anche intimata una norma di condotta, e cioè continuare a disintossicarsi dalla dipendenza d’alcol, cosa che finora sta facendo con successo.
Le critiche dei giudici
La Corte ha in sostanza affermato che dei due tentati omicidi non vi era alcun riscontro agli atti e ha quindi sconfessato l’impianto accusatorio. Nel motivare brevemente la sentenza, il giudice Pagnamenta (a latere Paolo Bordoli e Fabrizio Filippo Monaci) ha usato più volte il termine «stupore» in relazione alla lettura della situazione della procuratrice Buzzi. Stupore per l’affermazione che se il giovane non si fosse scansato il coltello scagliato dal genitore l’avrebbe colpito, non trovando essa riscontro agli atti, così come non vi sarebbe riscontro per il fatto che il 56.enne dopo il lancio del coltello avesse inseguito il figlio nella sua stanza. Anzi, il figlio stesso ha affermato che l’uomo è rimasto fermo. E, appunto, stupore per la qualifica giuridica di tentato omicidio: «Quel gesto non era in alcun modo atto a provocare il decesso del giovane, ma nemmeno a causargli ferite gravi». Anche perché, oltre a mancare il ragazzo, il coltello (non si sa nemmeno se di manico o di lama) ha impattato contro un muro vicino a 22 centimetri d’altezza. E neppure è da considerarsi un tentato omicidio un asserito fendente verso il ventre del ragazzo in una fase successiva in cui il padre era tornato in possesso del coltello: «Non si comprende come la pubblica accusa possa sostenere che l’imputato ha brandito il coltello e che il figlio ha schivato il colpo solo all’ultimo spostando indietro al bacino. Il figlio stesso ha dichiarato che se il padre avesse voluto colpirlo in quel frangente, ce l’avrebbe fatta. Semplicemente, barcollava con un coltello in mano».
Padre e figlio rappacificati
Al netto dell’esito giudiziario, la vicenda famigliare sembra ora volgere al meglio, come peraltro affermato dallo stesso figlio, costituitosi accusatore privato, oggi in aula: «Ciò che mi è successo è stato sì molto spiacevole, ma anche un nuovo punto d’inizio. Ha portato mio papà a liberarsi da una dipendenza che ha avuto per tutta la vita. Una dipendenza che l’ha rovinato e reso tutta un’altra persona. Ora lo vedo più tranquillo, sta meglio. Vederlo così è stata una delle cose più belle che mi siano capitate nell’ultimo anno». Il 56.enne è infatti sobrio dal «fattaccio» - vale a dire da nove mesi - e ha egli stesso affermato che dopo l’arresto (ha fatto 49 giorni di carcerazione preventiva) la sua vita è «molto migliorata»: «Non sento più la necessità di bere, sto meglio mentalmente e fisicamente, ho perso dieci chili e ho trovato lavoro. Non tutti i mali sono venuti per nuocere». Padre e figlio, che nel frattempo ha traslocato, ora si frequentano regolarmente e senza particolari problemi: «Lo vedo che mi parla con parole sincere - ha detto il giovane - Si è reso conto di quello che è successo».
il contesto del «fattaccio»
In aula sono stati tutti concordi nel dire che l’imputato è una persona buona, ma che l’assunzione d’alcol - la sera dei fatti aveva in corpo sette Campari Spritz - lo rendeva peggiore. Il «fattaccio» è stato il culmine di tensioni famigliari che si accumulavano da tempo, certamente esacerbate dalla dipendenza del padre, ma non riconducibili esclusivamente a essa. Il giovane era da poco tornato a vivere con il genitore e la convivenza non era facile. A complicare la questione la decisione del figlio, probabilmente mal consigliato, di far recapitare al padre da un avvocato una richiesta formale di mantenimento. A scatenare il litigio la sera del coltello è poi stata la decisione del padre di staccare la corrente, infastidito dai rumori del figlio che giocava ai videogiochi. Quest’ultimo ha reagito avvicinandosi al genitore e sputandogli in faccia «per l’ennesima volta»: «Una cosa schifosa, umiliante. Avrei preferito mi desse un pugno». Allo sputo è seguito lo scatto d’ira: «Se ho lanciato il coltello è perché probabilmente ce l’avevo già in mano perché stavo tagliando pane e formaggio per la cena. Avessi avuto in mano un mazzo di chiavi o un bicchiere gli avrei lanciato quelli». In seguito la lite è proseguita in camera del ragazzo, dove il giovane si è ferito superficialmente al palmo con la lama del coltello. Alla vista del sangue, il padre l’ha subito soccorso.