L'intervista

«Non è uno sport individuale, si gioca sempre di squadra»

A margine della sua ultima sessione di Gran Consiglio, con Bixio Caprara abbiamo riflettuto sullo stato attuale della politica ticinese
©Chiara Zocchetti
Paolo Gianinazzi
26.02.2025 06:00

Per Bixio Caprara, esponente liberale radicale di lungo corso, in questi giorni si chiude un importante capitolo, quello della politica attiva. Con lui, a margine della sua ultima sessione di Gran Consiglio, abbiamo riflettuto sullo stato attuale della politica ticinese.

Partiamo dalla fine. Poco fa, nei corridoi di Palazzo, mi ha detto che «fa un po’ strano» lasciare la politica dopo così tanti anni. Con quali sentimenti si appresta a chiudere questo capitolo della sua vita?
«Ho un occhio che ride e uno che piange. Il cambiamento che mi è capitato (la nomina a direttore supplente dell’Ufficio federale dello sport, ndr), mi ha fatto molto piacere. Ho sfide davanti a me molto interessanti: una politica di promozione dello sport che andrà sviluppata con orizzonte 2040 e, in parallelo, la candidatura svizzera ai Giochi olimpici invernali. Compiti che mi affascinano. Dall’altra parte, non nego che ho sempre fatto politica molto volentieri. È un’attività che mi ha arricchito molto. Non certo dal punto di vista pecuniario (ride, ndr), ma delle conoscenze. Mi è sempre piaciuto approfondire i temi, andare nelle pieghe dei problemi, per capirli e affrontarli. Il tema è: fare le cose bene e fare le cose giuste, sapendo che le risorse non sono infinite. Mi avete sentito parlare mille volte di efficacia ed efficienza. Ecco, mi fa piacere constatare che queste due paroline ora sono sulla bocca di tutti. Anche se non si dà ancora un senso concreto a questi termini, con un’azione politica improntata alla loro implementazione. Siamo ancora abbastanza distanti da quello che, invece, Oltregottardo si fa con regolarità».

Nel salutarla e ringraziarla Alessandro Speziali l’ha definita «un operaio della politica». Concorda con questa definizione? Ma soprattutto: in politica servono più operai?
«Sì, sicuramente. Ma soprattutto servono servitori delle istituzioni. Ci sono due tipi di politici: chi serve il Paese e chi se ne serve. E se essere operaio della politica significa sporcarsi le mani e cercare di lavorare ai temi come fossero un blocco di marmo da cui togliere tutto ciò che non c’entra per trovare l’essenziale, beh, allora questa definizione mi va benissimo».

Nel suo lavoro parlamentare, su alcuni punti è stato molto fermo, ma sovente è andato alla ricerca del compromesso. Servono anche più politici pronti al compromesso?
«Questo termine non mi piace molto. Preferisco parlare di “ricerca del consenso”, che in politica è indispensabile. È soltanto così che si possono prendere decisioni. E siccome in questo Parlamento bisogna essere almeno tre partiti per decidere qualsiasi cosa, se vuoi arrivare alle soluzioni devi trovare una maggioranza. Ciò significa - anche se evidentemente tutti noi abbiamo un bagaglio di valori e principi a cui vogliamo tenere fede - animare la discussione e cogliere gli elementi che ti avvicinano, non esasperare quelli che ti mettono in contrasto. Ma mi permetto di dire anche che, molto spesso, la politica è fatta dalla ricerca di soluzioni, perché non si ha la libertà infinita di fare ciò che si vuole: ci sono basi legali da rispettare che di per sé già sono molto dense. Anzi, direi eccessivamente fitte».

Troppo fitte?
«Lo Stato di diritto è un principio sacrosanto, ma abbiamo sempre - e questo l’ho imparato da mio figlio che ha studiato diritto - la tendenza a risolvere un problema con una nuova legge. Non è così. Dobbiamo rifiutare questa logica in cui tutto è iper-regolato. Abbiamo uffici dell’amministrazione che vivono con un’ordinanza sotto il braccio perché c’è una base legale che giustifica un certo lavoro. Questa burocrazia impedisce poi, quando le priorità cambiano, di mettere l’accento su un aspetto piuttosto che un altro. Così si continua sempre e comunque a fare le stesse cose».

Si è sentito imbrigliato, come politico, da tutta questa regolamentazione?
«Non io personalmente. Ma noto che è il sistema a essere imbrigliato. Dico questo nella consapevolezza della qualità delle nostre istituzioni. Il Ticino non è l’ombelico del mondo: cerchiamo anche di guardare altrove e capire in quali situazioni si trovano Paesi a noi vicini. Detto ciò, è giusto non accontentarsi: ci deve sempre essere uno sguardo volto al futuro, una certa capacità di riformarsi. Dobbiamo avere il coraggio di capire che certe cose si possono fare in altro modo. Tutti i processi richiedono un ripensamento. E il servizio al cittadino pure».

La critica superficiale di dire “chissà che cosa fanno quelli lì...” è troppo facile. Conosco tanti colleghi che si fanno in quattro per essere presenti nelle commissioni, nelle riunioni di partito, e lavorano il sabato e la domenica per preparare i rapporti

Qual è lo stato di salute della politica in Ticino?
«Non è mai facile fare politica in momenti di difficoltà finanziarie. Ma, d’altra parte, a chiederci di avere conti in equilibrio è la Costituzione. Voglio, però, dire anche che ho grande rispetto per i colleghi che mettono a disposizione il loro tempo per la cosa pubblica. La critica superficiale di dire “chissà che cosa fanno quelli lì...” è troppo facile. Conosco tanti colleghi che si fanno in quattro per essere presenti nelle commissioni, nelle riunioni di partito, e lavorano il sabato e la domenica per preparare i rapporti. Tutto ciò, a fianco di un’attività professionale molto impegnativa. Anzi, che è sempre più impegnativa. Credo quindi che i colleghi meritino rispetto e in questo senso mi spiace dover constatare che tanti giovani che avrebbero avuto tutti i numeri per fare bene hanno lasciato la politica. Forse perché quell’età, tra i 30 e i 40 anni, è pure quella in cui ti giochi la carriera professionale. Ecco: trovare un equilibrio tra queste due esigenze è estremamente difficile. E la riflessione andrebbe fatta: non deve poter fare politica solo chi ha il tempo di farla».

Ci stiamo avvicinando a una soglia per cui occorre riflettere sul sistema di milizia, perlomeno come lo conosciamo oggi?
«Il quesito è legittimo. Sono sempre stato un convintissimo difensore del sistema di milizia. Non sarei mai stato disponibile a fare solo politica. Occorre un sistema permeabile tra quello che sta dentro e fuori queste mura. Ma è vero che riflettere sulle modalità e sul carico di lavoro che comporta la politica sarà importante».

Non è facile fare politica quando bisogna risparmiare. Concorda, però, sul fatto che pure sul fronte dell’Esecutivo c’è qualcosa che deve cambiare?
«Certo. Sono sempre più convinto che il tema del sistema elettorale maggioritario vada risolto. Siamo l’ultimo cantone con il proporzionale. Un Governo deve poter decidere, essere maggiormente chiaro. Ma non solo: deve pure essere molto più staccato dai compiti prettamente operativi. Le priorità le definisce il Governo, sì, ma poi i dettagli spettano ad altri. L’amministrazione è una macchina da 5.000 dipendenti. Dobbiamo dargli più spazio e flessibilità per evitare di avere una struttura completamente ingessata o troppo dipendente dal dipartimento. Il consigliere di Stato, purtroppo, spesso è troppo addentro alla gestione di problemi minuti che, invece, deve essere assolutamente delegata ai funzionari dirigenti. Il consigliere di Stato deve dedicarsi agli aspetti più strategici, di visione e definizione degli obiettivi. Non è normale, in fondo, che io di vere riforme dell’amministrazione non ne abbia mai viste».

E del Legislativo, che dire? È stata avanzata la proposta di una soglia del 4% per poter essere eletti. La frammentazione è un problema e questa la possibile soluzione?
«Sono d’accordo sulla frustrazione di alcuni colleghi deputati che non fanno parte delle commissioni. Ma, se dovessimo guardare il minutaggio di alcuni gruppi minori, sono proprio loro quelli che in Parlamento parlano di più, proprio perché sono fuori dalle commissioni. Quindi: l’introduzione di una soglia può andar bene, ma al contempo si deve permettere e facilitare la congiunzione delle liste. Così facendo anche i partiti minori possono coalizzarsi, raggiungere la soglia, fare gruppo e partecipare concretamente al lavoro commissionale, che è il centro dell’attività parlamentare. Oggi facciamo discussioni in Gran Consiglio completamente assurde poiché sono già state fatte nelle commissioni, dove loro non sono presenti e quindi si sentono legittimati a porre domande. Ma, a proposito di disfunzioni della politica, c’è un altro aspetto da sottolineare».

Quale?
«Non va bene dire che è sempre colpa di qualcun altro; detesto quando un consigliere di Stato punta il dito contro Berna, così come quando a farlo sono i Comuni o il Parlamento nei confronti del Governo. Quando punti il dito contro qualcuno, tre dita sono rivolte contro di te. Ognuno deve assumersi le proprie responsabilità. Dire sempre che è colpa di qualcun altro è troppo comodo».

Ho sempre scritto liberaliradicali con una parola sola. La mia famiglia ha un’origine operaia. Ho potuto studiare grazie a condizioni quadro che nel nostro Paese permettono le pari opportunità di partenza. Credo molto a questa nostra impostazione dello Stato e della formazione

Come sta, invece, il PLR? Lei storicamente è vicino all’ala più radicale, ma nel corso degli anni la sua posizione è un po’ cambiata. Le due anime del partito esistono ancora?
«Ho sempre scritto liberaliradicali con una parola sola. La mia famiglia ha un’origine operaia. Ho potuto studiare grazie a condizioni quadro che nel nostro Paese permettono le pari opportunità di partenza. Credo molto a questa nostra impostazione dello Stato e della formazione. Credo anche, però, che ci debba essere una costante ricerca di equilibrio tra i bisogni della società, di chi è in difficoltà, e le risorse a disposizione, che non possono essere infinite. Sono due facce della stessa medaglia, che solo assieme possono funzionare. Non è la libertà economica portata all’estremo da una parte contro la socialità dall’altra. Non credo in questa contrapposizione».

Guardiamo all’area del centro. I suoi quattro anni di presidenza sono stati segnati anche dal tentativo di alleanza con l’allora PPD. Capitolo chiuso oppure bisognerà tornare sulla questione?
«Qualsiasi elezione si vince al centro, a dipendenza della capacità di convincere l’elettorato mediano. È al centro, dove c’è voglia di trovare soluzioni, che trova la possibilità di amalgamare un certo consenso. Credo quindi che sia inevitabile riprendere il discorso. Ma non sto parlando dei due partiti. Parlo di un’area di pensiero. Di cittadini che vogliono finanze sane, soluzioni concrete senza troppi ideologismi, e che sono un po’ stufi di certi giochetti, penso ce ne siano tanti. Tornando alla domanda: non ci sarà mai un partito unico, però il fatto di trovarsi a discutere è inevitabile. Mi spiace anche un po’ constatare che la sinistra abbia la tendenza ad arroccarsi. Ci sono stati altri periodi in cui la possibilità di trovare un accordo era possibile pure da quella parte del Parlamento. Ma ora, forse per questa forte frammentazione, la sinistra è sotto pressione».

Al Centro e al PLR manca un po’ di consapevolezza che, in fondo, senza questi due partiti è difficile smuovere le cose in Parlamento. La sinistra, da sola, non può fare molto. Ma lo stesso principio vale a destra. Un potenziale poco sfruttato?
«Mi auguro che questa consapevolezza possa tornare. O perlomeno essere sviluppata. Trovare consenso è un processo che chiede a entrambe le parti di fare un passo nella buona direzione. Devi incontrarti. E per farlo ti devi avvicinare. Se invece la priorità è quella di mettere la freccia e far vedere che sei più bello degli altri, allora tutto diventa più difficile».

Chiudiamo con un nuovo inizio. Prima accennava al fatto che diversi giovani promettenti lasciano la politica. Quale consiglio si sente di dare ai giovani che si affacciano a questo mondo?
«Ho grande fiducia nelle nuove generazioni. Sono molto più brave di noi, più avanti. Quindi l’invito che faccio ai giovani è: mettetevi in gioco, facendo caro quel principio di JFK: ‘Non chiederti che cosa può fare lo Stato per te, ma che cosa tu puoi fare per le istituzioni’. E nella nostra realtà, a livello comunale e cantonale, si può dare un contributo importante. Certo, non si può pensare di arrivare e spaccare subito le montagne. Serve pazienza per capirne i meccanismi, come funzionano i partiti. La politica non è uno sport individuale, è un campionato che si gioca di squadra».

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