Giustizia

Riciclaggio: imputato prosciolto (e i giudici bacchettano le autorità)

Assolto un gioielliere luganese accusato di aver «lavato» denaro per la mafia – Per il Tribunale federale mancano prove certe
© CdT/Gabriele Putzu
Nico Nonella
04.08.2024 19:30

Oltre tre anni fa, era il 28 maggio 2021, la condanna non era passata inosservata. Già, perché nel motivare la sentenza la giudice del Tribunale penale federale Fiorenza Bergomi aveva suonato un campanello d’allarme, rimarcando un cronico problema della piazza finanziaria (in senso allargato) ticinese: l’arrivo di capitale illecito, spesso in odore di mafia. Se da un lato gli istituti di credito – allentato il segreto bancario – si erano dotati di maggiori strumenti di controllo, altri operatori - più o meno improvvisati – avevano continuato o a prestarsi attivamente ad attività di riciclaggio o a eseguire verifiche inadeguate (o a non eseguirle del tutto) sulla provenienza dei fondi.

Un comportamento che era stato rimproverato all’imputato comparso allora alla sbarra, un gioielliere di Lugano sulla quarantina riconosciuto colpevole di riciclaggio di denaro, carente diligenza in operazioni finanziarie e attività senza autorizzazione da parte della FINMA. In primo grado così come in Appello, due anni fa, l’uomo era stato condannato a una pena pecuniaria di 160 aliquote giornaliere, sospesa per un periodo di prova di due anni, oltre al pagamento di oltre 27 mila franchi di spese e 52 mila di risarcimento. In buona sostanza, gli era stato contestato il fatto di aver riciclato denaro per conto di Filippo Magnone, già condannato in Svizzera e in Italia per aver a sua volta ripulito a Lugano i soldi di Vincenzo Guida e Alberto Fiorentino, ex esponenti della «Nuova Famiglia» e a capo a Milano di quella che i media italiani hanno soprannominato «La banca della camorra». Ebbene, a tre anni dal primo processo, il gioielliere è stato assolto: lo scorso 1. luglio il Tribunale federale ha accolto il ricorso presentato dai suoi legali, gli avvocati Luca Marcellini e Demetra Giovanettina.

Mancano prove certe

Dalla sentenza emerge in particolare un elemento molto importante: per l’Alta Corte federale, le verifiche da parte dell’autorità inquirente non sono state sufficienti a provare la colpevolezza dell’imputato. Per esempio, il gioielliere era accusato dal procuratore federale Sergio Mastroianni di aver custodito 639 mila franchi in contante – appartenenti a Magnone – depositati in due cassette di sicurezza ubicate nel caveau della sua società. In aula, re anni fa, era stato mostrato un selfie che immortalava i due, trionfanti, davanti a una montagna di banconote. «Credevo fossero false», aveva tentato di giustificarsi l’imputato. Per la Corte di primo grado e per i giudici d’Appello, l’uomo «non poteva non sapere che quel denaro era provento di reato». Per i giudici di Mon Repos, invece, «la problematica della datazione del provento del crimine a monte, irrisolta dall’autorità precedente, escluderebbe a priori il riciclaggio di denaro. Non sarebbe infatti possibile escludere che i crimini pregressi siano prescritti».

Anche per quanto riguarda l’accusa di attività senza autorizzazione, il Tribunale federale ha riconosciuto «un accertamento arbitrario» dei fatti: il particolare, i primi due gradi di giudizio non hanno correttamente verificato il ruolo del ricorrente in un sistema per aiutare dei clienti italiani con averi in Svizzera ad aprire un conto in Ungheria, Paese nella white list, sul quale versarli. Gli stessi venivano poi trasferiti su un altro conto e infine riconsegnati in contanti o sotto forma di diamanti o orologi ai clienti in Italia. Il ruolo del gioielliere in questo cosiddetto “sistema di Budapest”? Per i primi due gradi di giudizio, dopo i bonifici sui conti ungheresi gli averi dei clienti venivano trasferiti su un conto da lui controllato, ma per l’Alta Corte federale «tale accertamento è risultato arbitrario, non essendo supportato da alcun elemento». Di qui, come detto, la sua assoluzione.

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