La testimonianza

«Tentavo di resistere per i miei figli, ma lui continuava a colpirmi»

Il drammatico racconto di Elena, vittima di una brutale aggressione da parte dell'uomo che frequentava – «Desidero rompere il silenzio e dare coraggio alle altre donne»
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Jenny Covelli
26.11.2024 06:00

«Se restassi in silenzio, diventerei sua complice. E non voglio. Desidero rompere il silenzio». È questa la premessa di Elena (nome vero noto alla redazione), che ha deciso di raccontare la sua storia. Un atto di violenza inaudita, subita dall’uomo che diceva di amarla e di volerla sposare. Che l’ha picchiata, che le ha messo le mani al collo, per poi fuggire urlando: «Quando ritorno ti ammazzo».

Elena è una donna matura. Ha due figli grandi che vivono con lei e che ha cresciuto da sola. Due anni fa ha iniziato a frequentare un uomo che conosceva da molto tempo. «Non eravamo fidanzati», precisa nel descrivere quel rapporto. Una relazione tra due persone adulte che amano la propria indipendenza. Poi, un giorno, tutto cambia. «Ha cominciato a proporsi in una modalità diversa: era asfissiante, limitante. Pretendeva di stare al telefono con me tutte le mattine mentre andavo al lavoro e tutte le sere quando tornavo. Voleva sapere quando uscivo, facendomi sentire in colpa mentre lui restava a casa. Lo vedevo struggersi». Lunghe chiamate, richieste di convivenza, proposte di matrimonio e una sfilza infinita di messaggi in cui ripeteva ‘‘la mia casa si illumina solo quando ci sei tu; ti amo; sei tutto per me; non posso vivere senza di te; ti prego, sposami’’. «Anche se non apprezzavo questa modalità, io gli volevo davvero bene», ammette lei. «Lo vedevo come una persona estremamente in difficoltà, e glielo dicevo».

Aggredita in casa

Una sera, mentre Elena prepara la cena, il telefono di lui, poggiato sul tavolo, continua a vibrare. Un messaggio, due, tre, cuoricini. Lei butta l’occhio, apre la chat. Riconosce la donna di cui in passato ha sentito parlare, una ex d’Oltralpe. Soprattutto, riconosce quel «posso chiamarti?» che anche lei riceve insistentemente, ogni giorno. «Gli dico che ho guardato il cellulare. Lui si butta a terra, si inginocchia, piange, mi implora. Una reazione spropositata, fuori luogo. Voglio andarmene, ma sono preoccupata. Ho paura che si faccia del male». Elena trascorre tutta la notte seduta sul letto, appoggiata alla testata, a guardare lui che fa avanti-indietro per la stanza, sudato, disperato, un fiume di lacrime.

Passa qualche mese, la relazione prosegue, i due si frequentano più spesso rispetto a prima. È estate. Elena ha una settimana impegnativa, i suoi genitori hanno problemi di salute che richiedono il ricovero. Lunedì torna al lavoro, «la sua seconda casa», e la sera mentre prepara la cena arriva il solito messaggio: «Posso chiamarti?». Al telefono lui le chiede se può passare a trovarla, «solo per un abbraccio veloce». «No, sono stanca. Ho bisogno di relax. Abbiamo passato insieme tutta la giornata di ieri. Ci vediamo domani», risponde. Tempo due minuti e lui è sotto casa. Le due abitazioni distano poche centinaia di metri. Elena si affaccia alla finestra. «Torna a casa, ci sentiamo dopo». Lui non demorde e si innervosisce. «Era la prima volta che dicevo no». Lo sente imprecare e, per evitare che disturbi i vicini, decide di scendere.

Ma quando Elena apre la porta, un pugno la colpisce in pieno volto. «Mi ritrovo stretta all’angolo dell’entrata, con le sue grandi mani che mi stringono il collo. Urla “ti ammazzo, ti ammazzo”». La riempie di calci, sferra una serie di pugni sulla schiena. «Mi rialzo e provo a fuggire su per le scale, ma mi afferra». L’abito di Elena si strappa, il cordless che ha preso al volo per chiamare aiuto le viene strappato di mano e scaraventato contro il muro. È terrorizzata, sotto shock. «Mi passa davanti tutta la vita. Rivedo i miei figli, il mio gatto. L’aria mi viene a mancare ma continuo a dirmi “resisti, non si muore così”». Lo implora: «Dici di amarmi, di volermi sposare. Come puoi farmi questo?». Elena corre, lui la insegue coprendola di insulti. Urla, ha gli occhi fuori dalle orbite. Un’unica cosa le viene in mente: «Calmati, ti restituisco gli orologi». Sono beni di valore, che lui le ha prestato perché ama che lei li indossi quando escono insieme. Un altro piano di botte per raggiungere la camera da letto. La tattica funziona. Lui si distrae e lei imbocca le scale in discesa. Raggiunge la porta, si fionda nel cortile e chiede aiuto. Fuori c’è solo l’anziana vicina, è terrorizzata. L’aggressore la vede, sale sulla moto e si allontana. «Ritorno e ti ammazzo, o verrà qualcun altro a farti fuori».

È finita. Elena rientra in casa, trova il cellulare e telefona alla polizia. «Pochi minuti dopo arrivano due pattuglie della Comunale. Parliamo nel cortile e racconto quello che è successo, mentre imbarazzata tento di coprirmi perché il mio abito è tutto lacerato. L’agente donna mi scatta due foto alla schiena, con il mio telefono. Mi ascoltano, mi sottopongono all’alcol-test e mi dicono che ho 90 giorni per denunciare. Io ringrazio e loro si allontanano».

Tra shock e vergogna

Che cosa è successo? Elena si ritrova in bagno, davanti allo specchio. Immortala il suo volto tumefatto. È mezza nuda, le unghie degli alluci sono strappate. Prova un dolore lancinante nelle parti intime, raggiunte pochi minuti prima da un calcio del suo aggressore. «Sono rimasta da sola, con un vuoto dentro. Impotente e ancora incredula. Mi vergogno». Chiama l’amica più cara, che si fionda subito da lei. Sono spaventate. Il figlio di Elena è fuori e non risponde al telefono. «Si vendicherà uccidendo lui», pensa. «Colleziona armi, lo troverà e gli sparerà». Alle 3 del mattino il figlio rientra. «Scusami, avevo la batteria scarica». Ma sta bene. La notte trascorre insonne, sotto shock.

Elena ha bisogno di assistenza e appena si fa giorno va al lavoro. Le colleghe la interrogano, le dicono di farsi visitare in ospedale. Come da lei richiesto, parte la segnalazione alla polizia. Alle 17 è in Centrale a sporgere denuncia. L’aggressore viene arrestato, ma non è per niente finita. Elena deve mettersi a nudo, letteralmente. Racconta, più volte, l’accaduto. Condivide mesi e mesi di chat. Si fa visitare, scattare fotografie. Risponde alle domande. «Ha usato una mano o due per strangolarti?». Legge sul rapporto che «non è mai stata in pericolo di morte». Legge le dichiarazioni di chi testimonia in favore del suo aggressore, «un bravo cittadino», mentre lei viene descritta come una persona che «viveva sopra le righe». Lei, vittima, si trova a doversi giustificare di fronte a chi le chiede: «Ma non ti eri accorta di chi avevi di fronte?».

Ora Elena è in attesa del processo. Il suo aggressore è libero ma con un ordine restrittivo, non può avvicinarsi a meno di 200 metri. E lei porta avanti la sua battaglia: «Io voglio fare qualcosa, per riprendermi la dignità e ridarla a tutte le donne. A chi non ce l’ha fatta e a chi non ha avuto il coraggio di denunciare. Queste azioni orribili non devono essere tollerate. Io sono stata aggredita in casa mia, da una persona che non era stata invitata. Porto sul corpo i segni di un pestaggio, dovrò essere operata. Non dormo più serenamente. Spero che il mio coraggio possa essere contagioso».

Nei Pronto soccorso circa 300 casi l’anno di vittime di violenza

© CdT/Chiara Zocchetti
© CdT/Chiara Zocchetti

Reagire e ricostruirsi

«La violenza domestica non è un problema solo il 25 novembre. Ma dedicarle una data consente di mobilitare la società civile affinché non chiuda gli occhi di fronte a una situazione così grave». A parlare è il dottor Alessandro Bianchi, medico specialista del Pronto soccorso alla Carità di Locarno. «Il tema scelto quest’anno per la campagna di attivismo dei 16 giorni è “Reagire e ricostruirsi dopo le violenze”. Perché parliamo di una persona, che non è solo vittima».

Quasi una al giorno

I quattro Pronto soccorso dell’EOC accolgono circa 300 persone all’anno vittime di violenza domestica. «A Locarno vediamo almeno 2-3 casi alla settimana. Si tratta principalmente di violenza fisica e violenza sessuale. Sono tante, ma la parte “sommersa” è ancora più grande», aggiunge il medico. Durante il triage, c’è chi dice chiaramente di avere subito un’aggressione. Altre lo fanno intuire «con perifrasi, giri di parole, o il gesto internazionale per chiedere aiuto. Noi accogliamo la persona vittima, la curiamo, cerchiamo di capire che cosa voglia rispetto alla sua vita». A volte, quando le pazienti vanno via, al personale sanitario rimane l’amaro in bocca. «Escono dal Pronto soccorso e ritornano da dove sono arrivate. E capita che, purtroppo, le rivediamo. Saperlo lascia un senso di frustrazione», ammette il dottor Bianchi. «Ma è qualcosa con cui noi curanti dobbiamo fare i conti. Siamo medici e dobbiamo occuparci di curare la salute delle persone. Il segreto medico è uno dei pilastri su cui si fonda il rapporto di fiducia che instauriamo. Non possiamo imporre loro la denuncia, la fuga. Significherebbe sottoporle a un’altra forma di violenza».

Oggi il simposio

All’Auditorium dell’Ospedale regionale di Bellinzona e Valli, dalle 15 alle 19, si terrà il simposio dell’EOC «La violenza domestica tra medicina sul territorio e medicina ospedaliera».

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