La sentenza

Truffa sui crediti COVID: coautori condannati

Otto e sedici mesi per i due cittadini italiani che hanno ottenuto mezzo milione di franchi omettendo di indicare nel modulo di richiesta la cessione della società, avvenuta poi a denaro incassato – «Uso dei soldi non conforme alle direttive : uno ha agito con leggerezza, l’altro ne ha approfittato»
Secondo la Corte la finalità del denaro era quella di espandere la società. © CdT/Gabriele Putzu
Valentina Coda
11.10.2022 15:55

Sì, è stata truffa e falsità in documenti. E no, la violazione del principio accusatorio sollevata in aula dalla difesa non regge. Si è chiusa con due condanne a 8 e rispettivamente 16 mesi sospesi la vicenda giudiziaria di un 69.enne e un 66.enne, imprenditori italiani navigati, comparsi ieri davanti alla Corte delle assise criminali perché accusati di aver chiesto e ottenuto un credito COVID di mezzo milione omettendo di informare i funzionari della banca dell’imminente cessione della società. A mente della Corte i due imputati «hanno usato il denaro in modo non conforme alle direttive e hanno disatteso le modalità indicate nel modulo di richiesta. Tutti e due sapeva che i soldi sarebbero serviti per espandere la società. Uno ha agito con leggerezza e non era estraneo al fatto che quello che stava sottoscrivendo non fosse conforme alla realtà. L’altro ha approfittato del denaro solo per continuare i suoi affari, mostrando egoismo».

«Puro tornaconto personale»

Il giudice Amos Pagnamenta ha confermato quasi interamente l’impianto accusatorio costruito dalla procuratrice pubblica Chiara Borelli, correggendo però al ribasso la pena inflitta ai coautori (durante la requisitoria erano stati chiesti 20 e 26 mesi). Per la Corte il 69.enne, su indicazione del 66.enne, ha compilato il modulo di richiesta per l’erogazione delle fideiussioni a condizione che la società disponesse già del credito COVID. «La finalità del denaro era quella di espandere l’azienda, il 66.enne aveva fretta di mettere le mani sia sulla società, che sulla somma di denaro per puro tornaconto personale. E nel giro di un paio di giorni i soldi sono stati interamente consumati e versati a un’altra azienda a cui faceva capo sempre lo stesso uomo». Il credito COVID messo a disposizione dalla Confederazione sarebbe dovuto servire per coprire le spese fisse, «non per fare utili e nemmeno per far lievitare la cifra d’affari. Si sono guardati bene dal saldare l’unico debito che aveva la società», ha sottolineato il presidente della Corte durante la lettura della sentenza.

I fatti

La vicenda si inserisce nel contesto della prima ondata pandemica, più precisamente tra giugno e luglio 2020. Il 69.enne, titolare di un’azienda, è prossimo alla pensione, ma ha un contenzioso aperto con un’altra società. Per far cessare la controversia, il 66.enne propone al correo di rilevare la sua società, a condizione che chiedesse e ottenesse un credito COVID di mezzo milione di franchi prima della cessione dell’azienda. Durante la compilazione del modulo di richiesta, i due hanno omesso di indicare il passaggio di proprietà dal 69.enne al 66.enne. Inoltre, dopo l’ottenimento del credito, la somma sarebbe stata interamente consumata erogando bonifici destinati a un’altra azienda a cui faceva sempre capo il 66.enne. Per la pubblica accusa si è trattato di «un’opportunità egoistica e affaristica» in cui uno degli imputati è stato solo «uno strumento d’appoggio per gli interessi dell’altro», mentre il 66.enne «si è mosso sul sottile filo del lecito e dell’illecito facendo sempre investimenti che ruotassero attorno al suo cosmo».

Diametralmente opposto l’impianto difensivo: l’imputato più anziano, patrocinato dall’avvocato Roy Bay, «non è un truffatore, è stato solo ingenuo, voleva chiudere la vertenza che aveva in sospeso per poi andare in pensione», mentre l’altro, difeso dall’avvocato Luigi Mattei, ha portato avanti operazioni «sempre ordinarie, documentate, con un uso corretto, adeguato e reale del credito. Non stiamo parlando di una storia di spostamento di capitali e non si è mai voluto acquistare una società per poi spogliarla».

La tesi non regge

Durante le arringhe è stata sollevata più volte la questione della violazione del principio accusatorio da parte della procuratrice pubblica. Per i patrocinatori Borelli ha pasticciato con l’atto d’accusa perché non figurava da nessuna parte l’utilizzo illecito del denaro e, soprattutto, sul modulo di richiesta per il credito COVID non vi era l’obbligo di indicare il nome dell’azionista o altro. Tesi che avevano portato gli avvocati a chiedere la piena assoluzione dei propri assistiti. La Corte, come detto, ha respinto questa tesi, accogliendo invece quella dell’accusa.

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