Turchia, scosse senza fine: «Potrebbero durare anni»

Scosse senza fine in Turchia. Dopo la devastazione del 6 febbraio, con un primo terremoto di magnitudo 7.8, ecco che arriva un'altra, grossa, ondata. La terra trema ancora dopo due settimane, e tanto. Ancora morti, saranno decine, che si aggiungono alle migliaia di inizio mese (l'ultimo conteggio sfiorava i 50 mila). Colpite, nell'ultima furia di lunedì sera, Antiochia e la provincia di Hatay, con l'aeroporto. Si parla di magnitudo 6.4 e 5.8. Filmati in rete mostrano la drammaticità di quest'ultimo episodio. L'epicentro è ancora più vicino al Mediterraneo rispetto al precedente, tanto da far scattare anche un'allerta tsunami, revocato dopo meno di un paio d'ore una volta capito che non era così grave. «Ma sarebbe bastato qualche metro più in là e le cose sarebbero andate in modo diverso», spiega Alessandro Amato, geologo dell'Istituto nazionale italiano di geofisica e vulcanologia, che tiene costantemente d'occhio quel delicato equilibrio tra terra e acqua. «Giustissimo che sia scattata quest'allerta», gli fa eco Domenico Giardini, professore di sismologia al Politecnico di Zurigo, nonché ex direttore del Servizio sismico svizzero. Entrambi sono d'accordo: quest'ultimo tremore, in questo punto del pianeta, non sarà di sicuro l'ultimo. «Certo, è normale che ci siano scosse dopo tutto questo tempo. Possono andare avanti ancora per giorni, settimane, mesi. Ma anche per anni e anni». Il problema sta tutto nelle faglie che hanno subìto un contraccolpo. E che ora si devono riassestare. Un processo primordiale lungo, difficile da prevedere. Che si può scatenare, da un momento all'altro, in tutta la sua furia. «Anche i nostri rilevatori qui in Svizzera percepiscono le scosse in Turchia, ovvio», esclama Giardini. «Stiamo parlando di fenomeni le cui onde fanno il giro del mondo varie volte», dice mettendo l'enfasi sulla potenza della natura in gioco.
«La rete sismica svizzera è composta da due tipi di sensori», premette Giardini. «Quelli che registrano moti del suolo molto piccoli, i quali servono a capire i movimenti del pianeta in giro per il mondo, e una seconda rete molto diffusa sul territorio, quella dei cosiddetti moti forti. Registra le grandi accelerazioni provocate dai terremoti locali. Se c'è un sisma che produce forti scuotimenti in Vallese, ad esempio, dobbiamo sapere quanto è stato lo scuotimento fatto subire a una diga, o a una scuola. Una volta misurate queste forze, siamo in grado di metterle in relazione ai danni». Il 64.enne spiega che entrambe le reti sono sempre in funzione, 24 ore su 24, «per avere un sistema di allerta in tempo reale».
«Come in Svizzera, anche qui possiamo sfruttare una rete costituita dall'insieme di varie reti sismiche di vari Paesi – aggiunge Amato –, considerando una maglia di rilevamento un po' più larga per registrare i terremoti più importanti. Il nostro centro di allerta tsunami, poi, sorveglia il Mediterraneo in modo costante, mandando i messaggi sullo stato e sulle allerte non solo alla nostra Protezione civile italiana, ma anche ad altre autorità di Paesi dell'area mediterranea che hanno chiesto di riceverli».


Incubo tsunami e sentinelle
A proposito del sistema di allerta tsunami, Giardini sottolinea come sia stato messo a punto dopo il maremoto nell'Oceano Indiano del 2004, che all'epoca aveva provocato oltre duecentomila morti. Uno dei più catastrofici disastri naturali dell'epoca moderna. «Queste sentinelle sono state realizzate anche in aree dove prima non c'era nulla. Come il Mediterraneo, che coinvolge soprattutto i Paesi che hanno delle coste. Certo, non è il caso della Svizzera, però molte nazioni partecipano al programma anche con la strumentazione che è poi vitale nel mandare gli avvisi di allerta».
Il professore evidenzia le differenze fra due realtà, quella del Mediterraneo e dell'Oceano Pacifico. «Il tempo di percorrenza di uno tsunami dal Cile alle coste del Giappone, ad esempio, è di quasi un giorno. Ma il Mare nostro è piccolo. Non voglio dire che sia una vasca da bagno, ma siamo lì. Parliamo di 15, 20 minuti. Anche a dipendenza del punto in cui ci troviamo. Ecco perché le allerte vanno date molto rapidamente. Soprattutto come nell'ultimo caso tra Siria e Turchia, con una magnitudo otto e vicino alla costa. Il segnale di emergenza parte in modo istantaneo. Ci vuole poi qualche minuto, o qualche decina di minuti, per essere sicuri di quanto il terremoto sia andato verso il mare e quindi possa avere provocato deformazioni del fondo marino che producono le famigerate onde anomale».


Le tre faglie
«Sì, il nostro protocollo prevede che un terremoto al di sopra dei 7.5 di magnitudo faccia scattare il dispositivo», conferma Amato. «Nel caso di lunedì il terremoto era più debole, ma più vicino alla costa. Ecco allora che abbiamo lanciato un'allerta locale, limitata a un raggio di cento chilometri, più o meno, dall'epicentro. Siamo rimasti a tenere d'occhio la situazione. Nessun rilevatore ha dato segnali di anomalie, quindi l'abbiamo revocata dopo un'ora e mezza circa».
L'esperto 65.enne torna sul nodo cruciale della situazione: l'instabilità delle faglie. «Il rischio di nuove ricadute c'è sempre, adesso sarà pure leggermente più alto perché quando si attiva una faglia, nelle zone intorno potrebbero crearsene delle altre. È un punto molto delicato, perché in quel punto del pianeta siamo proprio sul confine di tre placche che si incontrano: quella africana, a sud di Cipro, quella arabica a est e poi a nord quella anatolica, dove appunto c'è la Turchia. Noi, però, ci siamo, siamo sempre attivi e rapidi a reagire e a studiare il comportamento delle anomalie. Abbiamo avuto, in effetti, un paio di casi in cui c'è stato uno tsunami, per esempio nel 2020 a Samos e Smirne, tra Grecia e Turchia. Non era enorme, le onde avranno raggiunto altezze di massimo un paio di metri, due metri e mezzo, però avevamo rilevato flussi d'acqua molto violenti, molto impetuosi. All'epoca avevano provocato molti danni e anche una vittima, in Turchia».