Un secolo di rivendicazioni ticinesi, la prima volta del Cantone a Berna
«Pur rimanendo nelle regioni del bilancio cantonale, occorre levare gli occhi più alto. Occorre levarli al nostro diritto finanziario rimpetto alla Confederazione ». È con queste parole che, il 17 febbraio 1924 alla festa del suo partito Conservatore, l’allora consigliere di Stato Giuseppe Cattori preannunciava il tema che da lì a pochi mesi avrebbe definito una stagione politica - quella del «Governo di Paese», o «Pateracchio», per gli avversari - e un’epoca gli anni Venti - creando coincidentalmente un formato: le rivendicazioni ticinesi a Berna. Sì, le prime risalgono esattamente a un secolo fa: furono un successo di pubblico, ma non altrettanto di critica.
Il contesto storico
Sono diversi i fattori che hanno portato alla stesura delle rivendicazioni. In primo luogo la difficile situazione economica. Dopo la ripresa post-bellica l’economia mondiale stava rallentando e il Cantone in particolare aveva pochi soldi da spendere: la parola d’ordine era contenimento della spesa, con misure anche dolorose, come il taglio di stipendio agli statali. Il «Governo di Paese» venne peraltro eletto tacitamente dopo che quello precedente cadde per un Preventivo bocciato dalla minoranze. In tutto questo rivolgersi a Berna significava sia cercare nuovi afflussi di denaro, sia rendere attenta la Confederazione che era essa stessa a poter stimolare l’economia locale, dato che banalmente alcuni provvedimenti erano di sua esclusiva competenza.
Girando la prospettiva, al contempo a Berna si erano create delle condizioni particolarmente favorevoli affinché le rivendicazioni venissero perlomeno ascoltate. Da un lato vi era un consigliere federale ticinese, il conservatore Giuseppe Motta - fu lui a suggerire al Governo cantonale di strutturarle in un memorandum dall’altro vi erano i timori della Confederazione per le più o meno supposte brame con cui Mussolini guardava al Ticino. Il Cantone non era peraltro estraneo a sussulti irredentisti. Far sentire Berna vicina era quindi anche un modo per far sì che il Ticino non occhieggiasse troppo a Roma. La sfiducia elvetica, in questo senso, aveva le gambe lunghe: a mo’ d’esempio, già durante la Prima guerra mondiale i soldati ticinesi vennero mandati a difendere altri confini: c’era il timore che sarebbero stati troppo teneri con gli amici italiani.
Al centro, due uomini
La storia delle rivendicazione è poi anche la storia di una scommessa politica: quella compiuta dai consiglieri di Stato Cattori e Guglielmo Canevascini. Conservatore il primo e socialista il secondo, erano le vere anime del «Governo di Paese». Sfruttando la recente introduzione del sistema proporzionale, avevano di fatto tirato per le orecchie i rispettivi partiti in un accordo politico che aveva messo in minoranza i liberali che governavano da decenni.
La scommessa era che proprio i liberali su questo tema avrebbero remato nella stessa direzione. Il fatidico sì arrivò a quattro giorni dal congresso conservatore, sul quotidiano Gazzetta Ticinese (allora tutti i giornali, tranne il CdT, erano organi di partito): «Il programma di rivendicazioni ticinesi enunziato dall’onorevole Cattori è minimo, secondo noi, anzi, insufficiente. Ma noi l’appoggiamo ». Si poteva cominciare a lavorarci.
Le richieste
Le rivendicazioni vennero presentate in due memorandum a marzo e ad agosto, a cui seguirono una fitta serie di scritti e di incontri. Il processo terminò nel maggio del 1925. Quanto alle richieste in sé, furono in tutto una ventina. Ad esempio si chiedeva che la Confederazione versasse più soldi per il mantenimento delle strade di montagna( che dovevano fra l’altro essere asfaltate per il sopraggiungere dell’automobile), che venisse tolta la soprattassa di montagna sulla linea del Gottardo per merci e persone, che venisse rivista la convenzione con cui il Cantone aveva ceduto alle FFS le acque dell’Alta Leventina, e che venissero chiuse - al fine di difendere l’italianità - le scuole in lingua tedesca aperte in Ticino per i funzionari federali.
Cosa ne è rimasto
Le rivendicazioni, dicevamo, furono un successo di pubblico ma non per forza di critica. I giornali - il cui ruolo fu decisivo per indirizzare favorevolmente l’opinione pubblica - accolsero l’esito con entusiasmo. Scriveva ad esempio il CdT il 29.5.1925: «Il popolo ticinese tutto si rallegrerà di questa soddisfacente soluzione del problema delle rivendicazioni anche perché essa viene a rassicurarlo che la solidarietà federale non è una parola vuota di contenuto e che la Confederazione sa rendersi giusto conto dei bisogni e dei diritti della Svizzera italiana ». A distanza di cent’anni, l’opinione sugli esiti effettivi si è però un po’ raffreddata. Scrive ad esempio Luca Saltini, autore del libro Il Canton Ticino negli anni del Governo di Paese: «Il giudizio positivo deve essere in parte ridimensionato. Da un lato, infatti, le lunghe ed estenuanti trattative tra Consiglio federale ed Esecutivo cantonale avevano rivelato che i principi del federalismo e dell’elvetismo, sostenuti da tutti, erano invece applicati da pochi, stritolati da interessi spesso inconciliabili; dall’altro le parziali concessioni di Berna non risolvevano i problemi ticinesi se non in minima parte. Questo tuttavia, anche per il limite intrinseco al programma rivendicativo, preparato con eccessiva fretta».
«Berna oggi è più vicina, ma le incomprensioni restano»
Sono passati cent’anni dalle famose «Rivendicazioni ticinesi». Oggi le richieste nei confronti di Berna sono ovviamente cambiate. Ma, rispetto al 1924, oggi Berna è più vicina o più lontana dal Ticino?
«Senza dubbio la situazione è diversa da quella di 100 anni fa. Oggi Berna è più vicina, certamente, se pensiamo alle vie di comunicazione. L’attraversamento delle Alpi è più facile. Oggi non abbiamo più l’economia di sussidenza dell’epoca e i rischi di un’eccessiva presenza germanofona sono tutt’al più un ricordo. Il Ticino, inoltre, dispone di risorse federali per promuovere la cultura di lingua italiana. Negli anni Venti sarebbe probabilmente stato inimmaginabile che un tribunale federale potesse trovare ubicazione nella capitale del Cantone Ticino, come è invece successo, dopo impegnativi negoziati e rivendicazioni, negli anni Novanta del secolo scorso».
Eppure, secondo alcuni, il sentimento di essere per certi versi poco capiti appare più o meno lo stesso. Come leggere, nel presente, il sempre complicato rapporto con Berna?
«Non bisogna sottovalutare le differenze di mentalità, soprattutto con la cultura svizzero- tedesca. Non si tratta, però, di un solco incolmabile, come dimostra l’integrazione di molti ticinesi Oltralpe. Nel contempo è vero che le fragilità economiche e sociali si fanno sentire. Alcune sono state affrontate nel corso del tempo; altre si sono trascinate per anni, come la questione dei rustici o quella frontalierato. Altre ancora riemergono in modo ciclico, come il tema della perequazione finanziaria. Questi problemi hanno suscitato e suscitano incomprensioni che ricordano in parte quelle vissute a cavallo fra Otto e Novecento. Oggi come ieri ci sono peculiarità che si fanno sentire e non sono sempre capite al Nord delle Alpi, come quello di essere un cantone di frontiera molto dipendente dal mercato del lavoro lombardo- piemontese, con salari inferiori e una quota di anziani che si scosta in modo significativo dalla media nazionale».
Ma oggi si può parlare di rivendicazioni verso Berna allo stesso modo di quelle dell’epoca?
«All’epoca si riunirono un solo pacchetto temi diversi e il Consiglio di Stato se ne fece carico nei confronti di Berna. Negli ultimi decenni si è potuto osservare un insieme di istanze rivolte in momenti diversi da più enti istituzionali e partiti. Da un lato, negli ultimi tre decenni sono moltissimi i casi in cui il Consiglio di Stato ha scritto al Consiglio federale manifestando quelle che potremmo chiamare rivendicazioni o domande volte chiedere compensazioni finanziarie o richieste di un maggiore riconoscimento come cantone di lingua italiana collocato al Sud delle Alpi. Dall’altro lato, il Gran Consiglio, ad esempio attraverso lo strumento dell’iniziativa cantonale, o la deputazione ticinese a Berna si sono manifestati nel Parlamento o presso il Governo federale. Non sono mancati, inoltre, singoli partiti che in varie forme hanno preso l’iniziativa di contestare misure bernesi o rivendicare sostegni per un Ticino ritenuto discriminato. In questo senso, l’arrivo sulla scena politica della Lega dei Ticinesi negli anni Novanta è stato uno spartiacque».
A sorprendere nel 1924 fu il fatto che un cantone «spaccato» come il Ticino riuscì a presentarsi in maniera unita nel rivendicare più attenzione da parte della Confederazione. Oggi sul piano politico il Ticino sembra più frammentato che mai. C’è margine per ritrovare una certa unità in Ticino, almeno nelle rivendicazioni verso Berna, oppure il destino è fatto di frammentazione?
«Le rivendicazioni molteplici e diversificate odierne riflettono, almeno in parte, una frammentazione del quadro politico cantonale che non esisteva negli anni Venti. Se la politica cantonale fa fatica ad approvare il preventivo, con modalità per certi versi inedite, non ci si deve stupire che si possa far fatica a trovare un’intesa comune e pesare in modo significativo quando si tratta di difendere gli interessi del Ticino a Berna. Nonostante ciò, la compattezza del Governo cantonale nelle ultime legislature può essere una premessa importante per negoziare condizioni migliori a Berna».
Per questa e altre storie di cent’anni fa, il CdT ha fatto un podcast: La Cara Vecchia Rassegna Stampa.