L'intervista

«Una guerra civile, ma fredda, divide ormai da anni la società americana»

Mattia Diletti, politologo dell'Università La Sapienza di Roma, spiega le origini della polarizzazione statunitensi e le possibili conseguenze sul voto
Donald Trump è visto oggi come il leader delle destre populiste in tutto il mondo. ©JIM LO SCALZO
Dario Campione
04.11.2024 06:00

Mattia Diletti insegna Scienza politica alla Sapienza di Roma ed è autore di Divisi. Politica, società e conflitti nell’America del XXI secolo (Treccani), un saggio che, sin dal titolo, chiarisce quanto oggi gli USA siano spaccati, e non soltanto in vista delle presidenziali.

Professor Diletti, partirei da un punto su cui lei insiste sia all’inizio sia alla fine del suo libro, ovvero la «guerra civile fredda» che da anni gli Stati Uniti stanno combattendo. Può spiegare ai nostri lettori di che cosa si tratta e come ci si è arrivati?
«Gli Stati Uniti sono un Paese che ha conosciuto momenti di conflitto e di tensione anche molto forti dentro il proprio spazio politico, nella società e nelle istituzioni. Gli USA sono caratterizzati da molta diversità, dal pluralismo, e a metà dell’Ottocento hanno vissuto anche una vera guerra civile. Oggi l’impressione è che stiano andando verso una dinamica di ulteriore polarizzazione. Ci sono cioè due Americhe, completamente divise dal punto di vista sociale, culturale, territoriale, politico. Due Americhe incapaci di trovare punti di contatto, una forma di armistizio, anche istituzionale, grazie al quale sia possibile riconoscere le ragioni dell’altro, dell’avversario, che è continuamente delegittimato. Assistiamo, quindi, a piccoli e grandi scoppi di conflittualità, che vanno oltre ciò che è auspicabile in un sistema democratico, come dimostra l’assalto al Congresso del gennaio 2021».

La violenza politica sta diventando un fattore?
«Negli ultimi 30 anni si contano 231 episodi di violenza politica, compreso ovviamente l’ultimo attentato all’ex presidente Trump. Tuttavia, va detto che a gettare più benzina sul fuoco nei due campi sono stati soprattutto i repubblicani. Soltanto 5 di questi 231 casi non sono collegati ad estremisti di destra o conservatori. Nella retorica generale, per ragioni strategiche e talvolta pure contingenti, i repubblicani hanno innalzato il livello di conflittualità. Lo hanno fatto sin dall’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, accelerando sulla polarizzazione, un’offerta politica sempre più aggressiva anche nei linguaggi e nei contenuti».

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Una strategia iniziata per contrastare la popolarità di Bill Clinton che si è trasformata, con Trump, in un fattore globale. L’ex presidente è diventato, paradossalmente, lo sdoganatore mondiale della destra.
«Sì, è così. Va detto che la strategia dei repubblicani ha avuto un momento in cui tutto si è raffreddato: è successo dopo l’11 Settembre, perché in quel momento l’intero Paese, con le sue componenti politiche, si è stretto intorno alla bandiera e alle istituzioni. Ma con il passare del tempo, e con l’allontanarsi dai drammatici eventi del 2001, e soprattutto con la crisi finanziaria del 2008, sono saltati un po’ tutti i tappi. Non solo: la vittoria di Barack Obama, in qualche modo, ha reso evidente quanto fosse presente una questione legata all’America Bianca».

Obama è stato anche il presidente della riforma sanitaria, duramente contrastata dai conservatori.
«Non c’è dubbio. Il cosiddetto Obamacare ha fatto emergere contrasti sociali quasi atavici, ha risvegliato la parte di elettorato contraria a qualsiasi forma di allargamento del Welfare. Di chi pensa che questo genere di riforme metta le mani nelle tasche degli americani per passare i soldi alle minoranze. È stato seminato vento, ma poi la tempesta perfetta è arrivata grazie a un outsider che era un vero polarizzatore, esterno al sistema politico: Donald Trump. Il quale, da una parte ha raccolto questa incertezza della società in crisi e pronta ad ascoltare un certo tipo di narrazione populista; dall’altra, si è preso, letteralmente, il Partito repubblicano, fino a diventare, per l’importanza che hanno gli USA nel mondo, megafono delle destre occidentali».

Lo stesso Obama si è chiesto se la sua presidenza sia arrivata troppo presto e abbia fatto esplodere la «questione bianca», latente da anni ma adesso sempre più importante.
«Si, io credo che ci sia una parte proprio di subconscio bianco legata alla paura di perdita di status. I demografi dicono che nel 2045 bianchi saranno “solo” la minoranza più grande degli USA, cosa che già accade nelle grandi metropoli. Questo genera paura. C’è una parte di classe media tradizionale, bianca, che si è sentita assediata negli ultimi anni da alcuni rovesci economici. E che di fronte alla richiesta di alcune minoranze, in special modo quella afroamericana, di ridisegnare l’identità e la cultura del Paese, è in forte disagio. Come succede ogni volta di fronte a smottamenti nei rapporti di forza e di potere dentro una società».

La «color line», come lei la chiama nel libro, la frattura tra America Bianca e America nera, rimane quindi la più profonda della società statunitense.
«Sicuramente è quella più peculiare, soprattutto tra chi è stato lasciato indietro dai processi della globalizzazione. Lo capiamo anche noi, in Europa, osservando un certo tipo di dibattito sorto intorno all’immigrazione. Certo, la color line, la linea del colore, è una frattura che la società americana ha difficoltà a sanare, anche se non bisogna generalizzare. Non tutti gli elettori trumpiani bianchi sono razzisti, parliamo di 70 milioni di persone, e sarebbe sbagliato accomunarli. La storia è sicuramente più complicata, per quanto la questione razziale non sia stata sinora sanata fino in fondo. A volte, c’è un pezzo d’America che veramente fa fatica a digerirla».

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