L'intervista

Uno scontro economico e culturale: ecco perché Donald Trump attacca l’Europa

Piero Graglia analizza i motivi che spingono il presidente americano a sollevare barriere e dazi contro il Vecchio continente: «Il mercantilismo sovranista del tycoon è una scelta suicida»
Donald Trump ©Ben Curtis
Dario Campione
05.03.2025 22:00

«L’Unione Europea richiede di essere trattata da pari a pari dall’altra sponda dell’Atlantico nei momenti di crisi; di là viene la richiesta che il peso dell’UE si faccia sentire anche come capacità assertiva in politica estera e non solo come presenza commerciale concorrenziale. Il nodo di una partnership atlantica che non può più essere fondata sulla subordinazione europea sta tutto qui, ed è su questo piano che l’Europa deve porsi per rendere credibile il suo “spazio di libertà, sicurezza e giustizia”». Nel 2022, in piena “era Biden”, e quando pochi avrebbero scommesso sul ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, tra gli analisti e gli studiosi di relazioni internazionali c’era chi continuava a insistere sulla necessità di affrontare seriamente il tema della crisi della «Transatlantia».

Tra loro anche Piero Graglia, ordinario di Storia e politica dell’integrazione europea all’Università Statale di Milano, che in L’Unione Europea. Perché stare ancora insieme (Il Mulino) si interrogava sulle continue «voci» di un «prossimo divorzio» tra gli Stati Uniti e il Vecchio continente.

«In questa fase storica - dice Piero Graglia al CdT commentando il discorso al Congresso pronunciato martedì dal presidente americano - Trump sta rispolverando una sorta di mercantilismo sovranista che fa perno sull’erezione di barriere commerciali immaginate come un fattore protettivo ed espansivo dell’economia interna. È un modo di pensare estremamente rozzo. La scienza economica si è molto interrogata sulla libera circolazione delle merci e sull’abbassamento delle tariffe come promozione del commercio internazionale. Usare i dazi come arma è una scelta suicida: ogni volta che si erige una barriera, automaticamente si provoca una reazione di chi è colpito da quella stessa barriera commerciale. Trump sbaglia, come continuano a dirgli tutte le persone più avvertite, nel mondo e in patria».

In questo senso, lo scontro con l’Europa e con l’Unione Europea è in qualche modo quasi inevitabile. «L’Europa si è costruita al suo interno come mercato libero, e ha mantenuto aspetti protezionistici soltanto sul piano agricolo. È, anche, e sicuramente, l’ultimo baluardo della regolazione dei rapporti commerciali in ottica espansiva. Non un’entità che fa protezionismo e che si rifugia nel mercantilismo - spiega Graglia - Io non credo che le scelte di Trump danneggeranno l’Europa, anche per la capacità dell’Unione di diversificare i propri interessi di mercato. Negli ultimi 70 anni, l’Europa ha dialogato con tutti: con i Paesi in via di sviluppo, con l’Asia, con l’America Latina, con i Paesi africani di nuova indipendenza, e con la Cina. E in maniera molto diversa rispetto agli USA. L’Europa aveva e ha tutt’ora molte frecce al suo arco per diversificare i propri interessi commerciali. Ovvio, è doloroso cambiare gli orientamenti della politica commerciale continentale, ma se di fronte c’è un interlocutore che così vuole, allora si gioca al suo gioco».

Dopo il 1945, gli USA hanno costruito la propria proiezione di potenza esterna sull’esistenza delle basi militari all’estero, alcune delle quali sono importantissime: ad esempio, Okinawa, in Giappone, per tutta l’area asiatica. L’idea che gli Stati Uniti abbandonino questo reticolo, questo network di basi militari, è sconvolgente

La domanda che molti si fanno, dal punto di vista delle relazioni internazionali, è se Trump possa davvero fare a meno dell’Europa occidentale. Alcuni giorni fa, sul New York Times, si discuteva addirittura dell’ipotesi di dismissione delle basi militari. Una prospettiva alla quale Graglia sembra credere poco. «Dopo il 1945, gli USA hanno costruito la propria proiezione di potenza esterna sull’esistenza delle basi militari all’estero, alcune delle quali sono importantissime: ad esempio, Okinawa, in Giappone, per tutta l’area asiatica. L’idea che gli Stati Uniti abbandonino questo reticolo, questo network di basi militari, è sconvolgente. Può essere che, così come hanno cominciato a fare le ultime amministrazioni, Washington proceda a un ridimensionamento degli impegni militari all’estero, perché a un certo punto si porrà anche un problema di tenuta delle spese in una società che è molto sensibile alla pressione fiscale. Ma non posso pensare a un cambiamento radicale. Certo, nel primo mese abbondante del suo mandato Trump ha introdotto molte novità, bisogna quindi aspettarsi l’inaspettabile. Vedremo. Tuttavia, perdendo le basi gli USA perderebbero anche la capacità di essere presenti e di influire in aree di interesse strategico. Da questo punto di vista, il gioco sarebbe totalmente a svantaggio degli Stati Uniti».

Il confronto Europa-USA non si riduce, però, soltanto al dato commerciale. Nel suo discorso, martedì, Trump è sembrato riecheggiare quanto detto a Monaco poco tempo fa dal vicepresidente JD Vance. Ha attaccato duramente «l’ideologia woke» e la cultura dei diritti che in Europa si è ormai affermata e consolidata.

«Sono i conati di un conservatore che cerca di riportare il mondo a una condizione, a una Golden age, come la chiama lui, in cui gli Stati Uniti erano in una sorta di dominio totale della situazione. Qualcosa di impossibile. Secondo me - insiste Graglia - l’Europa può fare a meno, culturalmente, degli Stati Uniti. Sarà complicato, perché siamo stati americanizzati e perché molti nostri comportamenti sono ormai in linea con ciò che avviene oltre oceano. Dalla parte opposta, invece, gli Stati Uniti non possono fare a meno dell’Europa, perché siamo il loro principale mercato. E non hanno altri. A chi vendono i loro prodotti? Il mercato interno americano è già abbastanza colonizzato e saturo di prodotti statunitensi, una delle forze degli Stati Uniti era esportare le produzioni in Cina e poi rivendere i manufatti in Europa. La politica di barriere che si estendono anche a Pechino produrrà soltanto danni, e non credo che le terre rare ucraine possano risolvere la situazione o rappresentare una svolta».

La fine della cooperazione euro-americana «sarà uno shock - conclude Graglia - ma dovesse pure avvenire questo strappo, penso che gli europei se ne farebbero una regione. E, paradossalmente, potrebbero riallacciare più solidi rapporti con il Regno Unito, e in qualche modo capovolgere i risultati della Brexit soprattutto sul piano della collaborazione politico-militare».