USA-Cina, il rischio? «Dover scegliere da che parte stare»

La Svizzera è sempre più schiacciata tra Stati Uniti e Cina. Lo ha ricordato, negli scorsi giorni, la direttrice della SECO, Helene Budliger Artieda. «L’Unione Europea è il nostro primo partner commerciale, seguita da USA e Cina». La responsabile della Segreteria di Stato dell’economia ha poi aggiunto, con perfetto e laconico stile da funzionario bernese: «Non è bello quando i nostri tre partner principali sono in conflitto».
La strategia in questo caso è semplice: «Mantenere aperti i canali con tutti e tre i Paesi». Che tradotto significa: «Nessuna guerra commerciale, tanto meno con gli Stati Uniti». Del resto, quale pressione potremmo mai esercitare con soli 9 milioni di abitanti, minacciando, per esempio, tariffe sulle Harley-Davidson? Impensabile. Il problema, semmai, è un altro: riuscire a mantenere i piedi in due scarpe. Peggio: se qualcuno ci chiedesse da che parte vogliamo stare? Di questi tempi, in fondo, la domanda non è poi così bizzarra.
Divieti di collaborazione
A tracciare la traiettoria delle relazioni commerciali tra Berna e Pechino, recentemente, è stato Bloomberg: «Le tensioni geopolitiche sono particolarmente sensibili per le aziende che fabbricano prodotti ad alta tecnologia. Cinque-dieci anni fa, queste preoccupazioni non si avvertivano», ha dichiaro Jean-Philippe Kohl, vicedirettore di Swissmem, l’associazione delle industrie meccaniche ed elettriche svizzere. «L’idea che gli USA un giorno dicano che dobbiamo interrompere questi trasferimenti di tecnologia è una paura primaria di molte aziende». Intanto, le relazioni commerciali tra Svizzera e Cina continuano a crescere, come sottolinea al Corriere del Ticino la co-presidente della Camera di Commercio Svizzera Cina, sezione Ticino, Alessandra Gianella. «Tra Berna e Pechino esiste un accordo di libero scambio che risale al 2014. Da questa data le esportazioni verso la Cina sono passate da 8,8 a 15,4 miliardi (+74%) mentre le importazioni sono aumentare del 47%. Con gli Stati Uniti, invece, un accordo di libero scambio non esiste ancora». Una differenza sostanziale che tuttavia non ha impedito agli USA di essere il secondo mercato di riferimento per la Svizzera, davanti alla Cina
Padron comanda
Mai come in questo periodo storico le relazioni commerciali sono apertamente e dichiaratamente di natura geopolitica. Un assaggio pubblico lo abbiamo avuto negli scorsi giorni: «Abbiamo sempre fatto tutto ciò che il presidente Donald Trump ci ha chiesto», ha ammesso senza mezzi termini la direttrice della SECO, commentando la decisione di Washington di inserire la Svizzera nella lista dei Paesi con presunte «pratiche commerciali sleali». Non sorprenderanno allora le pressioni esercitate da Washington su Pechino (e indirettamente su chiunque commerci con la Cina) riguardo ad alcuni settori strategici. Ancora Gianella: «Gli Stati Uniti nel giugno del 2024 hanno discusso un disegno di legge (ancora in fase di approvazione al Congresso) denominato Biosecure Act che vieta alle compagnie farmaceutiche di fare affari con alcune aziende biotecnologiche cinesi». Le ripercussioni di questa decisione colpirebbero anche i gruppi farmaceutici svizzeri. «Le aziende svizzere che operano in settori strategici temono ripercussioni sulle loro attività negli Stati Uniti. In particolare, lavorare con clienti cinesi, soprattutto quelli presenti nella lista di Washington, potrebbe complicare i rapporti con il mercato americano». Per quanto non sia ancora chiaro se e come verrà attuata la legge, il rischio che le aziende riducano la propria sfera di azione nel timore di incappare in qualche sanzione governativa americana è evidente.
La minaccia è reale
Una certa pressione a stelle e strisce, quindi, si sente. Ed è proprio in questo contesto di veti e dazi incrociati che la Svizzera dovrà dar prova di capacità di adattamento. Lo spiega bene Luca Albertoni, direttore della Camera di Commercio del Canton Ticino: «Negli ultimi due decenni, l’economia svizzera ha saputo adattarsi, prima alla crisi finanziaria, poi al franco forte e infine alla pandemia. Il risultato? La quota di export è cresciuta, sia per la Svizzera sia per il Ticino». E ancora: «Questo è il risultato di continui adattamenti strategici, diversificazione della clientela e ricerca di nuovi mercati». Ma il punto è proprio questo: fino a quando si potranno diversificare i mercati? Al riguardo Albertoni sottolinea: «L’imposizione di dazi e restrizioni commerciali rende più costoso e complesso il commercio con entrambi i Paesi, USA e Cina. Le aziende che operano in settori sensibili rischiano di dover scegliere da che parte stare e di dover ridurre la dipendenza da fornitori/clienti esclusivamente cinesi o statunitensi». La minaccia è dietro l’angolo.
Sale la temperatura
Negli scorsi giorni, il termometro delle relazioni commerciali tra Svizzera e Stati Uniti ha già mostrato segni di surriscaldamento. Come detto, lo scorso 9 marzo, Washington ha inserito la Svizzera nei Paesi con presunte «pratiche commerciali sleali». Il motivo – ha indicato la direttrice della SECO – va cercato nella bilancia commerciale sfavorevole agli USA. La Svizzera esporta infatti più merci di quante ne importi dagli Stati Uniti. «Questo è il punto centrale», rileva Gianella. Che poi aggiunge: «Il fatto che Berna mantenga buone relazioni con Pechino grazie al decennale accordo di libero scambio e al riconoscimento precoce della Repubblica Popolare nel 1950 potrebbe alimentare qualche diffidenza in più da parte americana». Trump, del resto, non ha mai fatto mistero che la Cina rappresenta il vero nemico da combattere sia sul piano commerciale, sia su quello geopolitico. La guerra dei dazi rilanciata con il secondo mandato presidenziale si inserisce perfettamente nel solco di una politica che mira a disaccoppiare le due economie. E la Svizzera in questa guerra come si posiziona?
A suonare il campanello d’allarme all’Europarlamento, nelle scorse settimane, è stato l’ex presidente della BCE, Mario Draghi, il quale in vista dell’introduzione dei «dazi reciproci» di Trump – potrebbero scattare il 2 aprile – ha commentato: «La mossa americana reindirizzerà la sovraccapacità cinese verso l’Europa, colpendo ulteriormente le imprese europee. In effetti, le grandi aziende dell’UE sono più preoccupate da questo effetto che dalla perdita di accesso al mercato americano». La Cina potrebbe quindi inondare il mercato europeo di merci, soffocando l’export svizzero? «È chiaro che una preoccupazione al riguardo esiste, come dimostra il fatto che Bruxelles ha messo dei dazi (ebbene sì, non li utilizzano solo gli USA) sulle auto cinesi», osserva Albertoni. Il quale spiega: «Il problema nasce da una specifica politica economica cinese, in cui lo Stato sovvenziona pesantemente alcuni settori per conquistare quote di mercato in Europa, anche a costo di subire perdite iniziali pur di consolidare la propria presenza». La domanda, dunque, è inevitabile: questo fenomeno si estenderà ad altri settori? «Un esempio concreto è la crisi delle acciaierie in Svizzera. Le cause sono molteplici, ma uno dei fattori chiave è l’importazione di acciaio a basso costo dalla Cina, che ha destabilizzato il mercato. Pechino, principale produttore mondiale, ha incrementato le esportazioni a seguito della crisi immobiliare interna, riducendo i prezzi a livello globale e mettendo in difficoltà i produttori svizzeri. Ecco un chiaro esempio di come il disaccoppiamento economico tra USA e Cina può ripercuotersi sull’Europa. «Non a caso – conclude Albertoni – i dazi americani colpiscono duramente l’acciaio. Seguendo questa logica, le conseguenze per il Vecchio Continente potrebbero essere significative».