L'analisi

I primi dieci giorni del Trump 2.0 e la divisione dei poteri

Mentre americani e non si lasciano distrarre dal braccio teso di Musk e da simili polemiche, il tycoon lavora per dare una nuova direzione agli Stati Uniti – Grossi cambiamenti nella classificazione del personale federale rischiano di togliere influenza al legislativo per darlo all'esecutivo
Giacomo Butti
30.01.2025 19:00

Come quello di un dio sorridente e spaventoso, il viso enorme di Elon Musk domina il comizio dell'AfD. Proiettati dal megaschermo, colori tra il blu, il violetto e il grigio abbracciano freddamente folla e bandiere, dando alla scena un che di distopico. Orwelliano, pure. Ci aspettiamo, quasi, di vedere una donna –  inseguita dalla Psicopolizia, come nel celebre adattamento pubblicitario di 1984, prodotto da Apple – gettare un martello contro il volto digitale, infrangendo, insieme al monitor, anche gli influssi malefici di quell'ipnosi collettiva. Niente di tutto ciò. Sabato, il raduno di Alternative für Deutschland, il partito di estrema destra tedesco, si è concluso senza imprevisti. E tutti a casa a riflettere, nelle parole di Musk, su come fare per evitare che il «popolo tedesco, una nazione antica che risale a migliaia di anni fa» si trasformi in una «grande zuppa».

© EPA/HANNIBAL HANSCHKE (Keystone)
© EPA/HANNIBAL HANSCHKE (Keystone)

Caduto a un mese dalle elezioni lampo previste per fine febbraio, l'appello identitario di Musk – non solo imprenditore e uomo più ricco al mondo, ma anche componente del governo statunitense grazie al suo ruolo nel nuovo Dipartimento dell'efficienza governativa (DOGE) – è stato definito da più parti come un'ingerenza nel processo elettorale tedesco. Ma non è certamente un caso isolato. L'escalation di toni registrata a Washington in questi primi dieci giorni a trazione trumpiana – dai litigi sull'acquisizione (o invasione) della Groenlandia all'unilaterale ridenominazione del Golfo del Messico – lascia presagire il brutale pragmatismo con il quale, nei prossimi anni, gli Stati Uniti si muoveranno sullo scacchiere globale. 

In tal senso, la stretta sull'esportazione di chip per l'intelligenza artificiale annunciata dall'amministrazione Biden nella sua ultima settimana di esistenza – contingentamento che colpirà anche la Svizzera – rappresenta solamente un assaggio dei passi che, pur con l'obiettivo di rallentare l'ascesa tecnologica dei suoi grandi rivali, Washington sarà sempre più disposta a intraprendere, anche a detrimento degli alleati più stretti. Abituato a una logica di scambi a somma zero, Donald Trump ha già dimostrato, in poco più di una settimana, di aver tutta l'intenzione di adempiere alla profezia MAGA: «Rendere di nuovo grande l'America». Senza troppo riguardo, va da sé, verso gli altri Paesi, e attraverso operazioni spettacolarizzate – a uso e consumo della fedelissima base elettorale – che rischiano però di trasformarsi in doloroso boomerang per gli interessi dell'americano medio e per lo status geopolitico degli Stati Uniti.

Durante lo scorso fine settimana, ad esempio, Colombia e Stati Uniti sono arrivati a un passo dalla guerra commerciale, quando al rifiuto da parte del presidente colombiano Gustavo Petro di accettare le condizioni di rimpatrio per i migranti privi di documento – incatenati fra loro e caricati su aerei militari, come pubblicizzato dall'account X della Casa Bianca – Trump ha risposto minacciando l'imposizione di dazi del 25% su tutte le merci in arrivo dal Paese dell'America Latina, insieme a una serie di altre sanzioni. Uno scontro, questo, evitato solo dopo lunghe ore di negoziazioni che – fanno notare adesso gli analisti americani – avrebbero potuto aver luogo prima che la crisi diplomatica si aprisse. Soprattutto considerato il rischio, concreto, di veder aumentare i costi dei prodotti colombiani (come il caffè) a discapito dei consumatori americani, ma anche quello di alienare definitivamente lo Stato latino il quale, come ha sornionamente ricordato nel bel mezzo del bisticcio l'ambasciata cinese su X, oggi vanta con Pechino i «rapporti migliori» da 45 anni a questa parte. 

Al netto di grosse promesse in politica economica estera – attualmente non concretizzate, come nel caso dei dazi contro la Cina – è sul fronte interno che Donald Trump sembra concentrare le proprie forze. Detto dei rastrellamenti di immigrati illegali, nel corso dei quali la profilazione razziale è all'ordine del giorno (chiedere ai nativi Diné/Navajo: «scambiati» per latinoamericani, fermati, arrestati, interrogati e poi rilasciati, senza scuse), la vera rivoluzione del secondo mandato del tycoon si sta realizzando a livello amministrativo, legislativo, esecutivo. Ripudiata da Trump quando i democratici avevano provato a farne un argomento di campagna elettorale, Project 2025 – agenda politica ultraconservatrice ideata già nel 2022 da personalità vicine al presidente – viene ora applicata in modo diligente.

Fra gli ordini esecutivi che strizzano l'occhio al dettagliato (900 pagine) programma politico, la messa in atto del cosiddetto Schedule Policy/Career, piano che – con il nome di Schedule F – Trump aveva già provato a cantierare negli ultimi mesi del suo primo mandato, ma che Joe Biden (per dire, l'urgenza!) aveva annullato nel suo terzo giorno di presidenza. Su questo vale la pena soffermarsi. Lo Schedule Policy/Career, in breve, è un programma di riclassificazione degli incarichi federali. Il governo statunitense divide infatti i propri impiegati in due categorie: «politici» (circa 4 mila) e di «carriera» (oltre 2 milioni). I primi, come si evince dal nome, rappresentano il personale assunto dalle differenti amministrazioni che si susseguono alla Casa Bianca. Chi fa parte di questa categoria, insomma, si occupa di mettere in pratica la linea politica del presidente e, generalmente, se ne va con lui quando il mandato giunge al termine. I secondi, invece, lavorano per le agenzie che garantiscono il buon funzionamento del governo e del Paese. Sotto tutti gli aspetti, dalle strade alla NASA. Essendo, queste, professioni apolitiche, chi è assunto lavora sul lungo termine, protetto da licenziamenti dettati da un cambio al vertice. Lo Schedule Policy/Career, sostanzialmente, mira a riclassificare circa 50 mila di questi impieghi da «carriera», incarichi dirigenziali compresi, e portarli nella categoria politica, rendendo così più facili le sostituzioni. Le implicazioni sono profonde. L'esempio più spesso utilizzato dagli analisti è quello della contraccezione di emergenza (la «pillola del giorno dopo») o dei farmaci abortivi. Apertamente auspicato dagli stessi ambienti ultraconservatori che hanno partorito Project 2025, un bando nazionale di questi medicamenti oggi dovrebbe passare dal Congresso per essere approvato. Ma se, con Schedule Policy/Career, i posti di lavoro alla Food and Drug Administration – FDA, agenzia federale che si occupa di regolamentare i prodotti farmaceutici – fossero riclassificati come «politici», questo passo legislativo non sarebbe più necessario. Chi lavora alla FDA potrebbe sentirsi obbligato ad assecondare il volere di Trump, per non perdere il lavoro, e definire «pericolosi per la salute» questi medicinali, di fatto togliendoli dal mercato. Peggio: chi si oppone potrebbe essere licenziato e sostituito con un più compiacente lealista.

Dovesse raggiungere la piena applicazione, un simile programma – attualmente bloccato da una causa aperta da due importanti sindacati – potrebbe avere un impatto devastante sul corretto funzionamento del governo statunitense e, soprattutto, sulla divisione fra esecutivo e legislativo. Che bilanciamento ci sarebbe se un presidente fosse libero di bypassare ogni opposizione al Congresso per imporre il proprio volere?

Negli scorsi giorni, poi, un ordine esecutivo firmato da Donald Trump ha portato all'immediato congelamento di migliaia di miliardi di dollari in sovvenzioni e prestiti federali per una rivalutazione ideologica delle motivazioni dietro l'assegnazione di questi fondi. L'intento, dichiarato, era di estirpare ogni spesa che non collimasse con l'agenda ultraconservatrice di Project 2025, ma ha avuto come conseguenza anche l'istantanea paralisi di scuole, ospedali e migliaia di altre strutture e organizzazioni che dipendono dai soldi di Washington. Un pasticciaccio, tanto da spingere la Casa Bianca a rimuovere tale provvedimento presidenziale. Per il momento.

Il tentativo di convogliare ogni fondo federale nella promozione di una singola dottrina, così come il piano per legare decine di migliaia di impieghi governativi a una fede partitica, sono segnali che devono preoccupare il popolo americano, e non solo i fedeli all'Asinello. Il problema di fondo, per essere chiari, non sta nel conservatorismo di questa amministrazione: quello lo ha scelto, liberamente e democraticamente, il popolo statunitense lo scorso 5 novembre. A inquietare è, piuttosto, lo sforzo in atto per indebolire il fondamentale equilibrio fra poteri che proprio l'America, per prima, ha mostrato al mondo. La natura autoritaria delle due misure menzionate non va sottovalutata.