Il Mondiale in Qatar, tra pressione e ipocrisia

Basterebbe ricordare la frase pronunciata da Jérôme Valcke, in vista dei Mondiali brasiliani. Correva il 2013 e l’allora segretario generale della FIFA suggerì spirito e priorità alla base delle attribuzioni della massima istituzione calcistica. Auto-smascherandosi. «Un livello minore di democrazia è talvolta preferibile quando si tratta d’organizzare una Coppa del mondo». Uno schiaffo alla posizione critica di parte della popolazione verdeoro, una carezza anticipata all’edizione del 2018, condotta con fermezza da Vladimir Putin. Quello russo, d’altronde, fu definito «il miglior Mondiale di sempre» dal presidente della FIFA Infantino, entrato in carica due anni prima. Già. Chissà se Gianni – sfogliando le prime pagine dei quotidiani occidentali - la pensa ancora in questo modo. Di certo, l’attesa è grande per scoprire se il giudizio verrà ripetuto per Qatar 2022. Insomma, per un torneo ammantato da polemiche, sdegno e – ammettiamolo – un velo d’ipocrisia. Prendete il «benvenuto» di Doha ai tifosi, circolato nelle scorse sul web sottoforma di poster e con otto comportamenti vietati nell’Emirato. Un falso. Che una parte dell’opinione pubblica non ha esitato a brandire per dare ossigeno alla retorica colpevolista. Oddio, la realtà – nel Golfo persico – non si discosta parecchio dal manifesto. I concetti di libertà e apertura sono altra cosa. Ma non da oggi. E questo, in fondo, è il nocciolo della questione.
Il susseguirsi di iniziative anti-Mondiale, al proposito, merita una duplice interpretazione. Positiva, certo, nella misura in cui mai un’edizione era stata accompagnata da una simile pressione. Dal dibattito, volendo riassumere, che nella sua accezione virtuosa dovrebbe favorire il progresso. Il cambiamento, anche. Come per altri grandi eventi, più o meno recenti (i Giochi di Pechino 2022…), urlare a destra e a manca «boicottaggio» rischia tuttavia di produrre effetti controproducenti. Azzerando, per l’appunto, il confronto, spegnendo i fari su una competizione che invece va sviscerata in tutte le sue ambiguità: violazione dei diritti umani e (in)sostenibilità climatica in primis. Per dire: Amnesty International, che da tempo s’impegna per tutelare i diritti dei lavoratori immigrati in Qatar, ha affermato di preferire lo strumento della negoziazione. Si parla, ad esempio, di un fondo per indennizzare operai e famiglie a cui cantieri per la costruzione degli stadi hanno riservato solo macerie. Di più: a livello europeo diverse federazioni – non tutte - hanno aperto le porte alla ONG, con l’obiettivo di sensibilizzare giocatori e staff sul tema.
Sarebbe però sbagliato responsabilizzare e colpevolizzare squadre e tifosi, mai come a questo giro – e in un periodo di enormi incertezze - desiderosi di scartare un regalo di Natale fatto di passione, emozioni genuine e divertimento. Perciò le mosse interessate di alcuni sponsor, così come la veemenza nell’ostacolare i maxi-schermi, meritano altresì una lettura critica. L’offensiva di Hummel, partner tecnico della Danimarca che – per protesta - ha oscurato il proprio logo sulle divise e previsto una terza maglia nera, in segno di lutto, appare per esempio nobile. Peccato che l’ONG Transparency International Danemark abbia notato come il marchio – in passato - avesse sponsorizzato un club qatariota e continui a produrre in Pakistan e Bangladesh, dove i diritti dell’uomo non sono esattamente rispettati. Che a guidare la frangia dei contrari ai villaggi dedicati ai fan sia la Francia, fa poi sorridere. La sensazione, infatti, è che da Parigi a Strasburgo si voglia ripulire un po’ la coscienza del Paese. Ricordate il pranzo consumato segretamente all’Eliseo tra Nicolas Sarkozy, Michel Platini e il futuro emiro Tamin ben Hamad al-Thani, poco prima del voto per l’assegnazione del Mondiale del 2022? Ecco.
Memori delle parole di Valcke, il dito va rivolto proprio alla FIFA. A colei, cioè, che ha consegnato le chiavi del torneo al Qatar. Una situazione ereditata da Infantino, è vero, ma che non impedisce all’organizzazione di attuare riforme radicali. Come? Vincolando l’attribuzione delle edizioni 2030, 2034, eccetera, a precise condizioni: sociali, non solo economiche. Agendo a monte, dunque, e non correndo ai ripari. Il CIO - a sua volta reo (non confesso) - è all’opera in questo senso. Perché non si tratta di progredire solo in termini di tecnologia, big data e infrastrutture, come illustrato con orgoglio ieri, nella house di Zurigo. No, bisogna pure essere consapevoli – e dal 2017 dei passi avanti sono obiettivamente stati compiuti – dell’impatto globale di una competizione come il Mondiale. Se ciò spingerà i massimi dirigenti a dichiarare che quella del 2022 «non è stata la migliore edizione di sempre», beh, lo scopriremo fra due mesi. Per ora preferiamo non scommettere.