Londra stanca di lacrime vuole credere a Sir Keir
Nella notte del disastro dei conservatori britannici almeno la palma della migliore battuta va a uno dei perdenti: «Il partito ora rischia di diventare un gruppo di uomini calvi che litigano per il pettine», ha detto l’ex sottosegretario alla Giustizia Robert Buckland al momento di cedere il suo seggio a Swindon. Sir Keir Starmer e i suoi laburisti possono celebrare un trionfo pari a quello di Tony Blair nel 1997. Ma anche per loro la battuta di un osservatore è il miglior commento: «A loveless landslide», ovvero «Una valanga senza amore». A provocarla, il disastroso bilancio di 14 anni di governo conservatore. Con appena 121 deputati su 650, non solo i Tory guidati da Rishi Sunak hanno subito la perdita record di 250 seggi ma hanno registrato il peggior risultato della storia sin dall’ Ottocento. La stessa sopravvivenza di quello che fu “il naturale partito di governo” della Gran Bretagna appare ora in dubbio.Non sarà la “fine dell’Inghilterra” che ho pronosticato nel mio ultimo libro, ma è certo la fine di un’idea d’Inghilterra che ha tenuto banco dal dopoguerra a oggi. Per capire di cosa parlo, basta dare un’occhiata ai ritratti dei premier appesi alle pareti del Numero 10 di Downing Street: ben 19 di loro (su 58) sono usciti da Eton e Oxford. Gli ultimi due David Cameron e Boris Johnson, e loro nomi testimoniano a sufficienza l’inesorabile declino (degrado, nel caso di Johnson) dell’Establishment che si immaginava, e veniva percepito, come predestinato al governo del regno. Le presunte virtù patrizie degli ex “reggitori dell’Impero” sono finite nella caricatura di una classe dirigente che ha sostituito l’onestà con la menzogna e la competenza con l’arroganza.
La Gran Bretagna se n’è liberata il 4 luglio, con una scelta a sinistra apparentemente in controtendenza rispetto all’avanzata della destra estrema nel resto d’Europa. Ma il trionfo parlamentare dei laburisti - 412 seggi, solo 7 in meno del record di Blair - è in realtà frutto del sistema elettorale “maggioritario secco”, che premia chi prende anche un solo voto in più nella singola circoscrizione e manda al macero tutti gli altri suffragi. Le percentuali di voto raccontano una storia diversa. La vittoria del Labour è arrivata con appena il 35% delle preferenze, vale a dire un modesto 1,4 % in più rispetto alla disfatta del 2019 e addirittura 5 punti sotto il 40% del “sinistro” Corbyn nel 2017. È vero, i conservatori si sono fermati a un catastrofico 23%. Ma alla loro destra si staglia ormai imponente l’ombra dell’altro grande vincitore: Nigel Farage. All’ottavo tentativo l’alfiere della Brexit non solo è riuscito a conquistare un seggio ai Comuni ma si porta anche dietro una pattuglia dei suoi populisti di Reform UK. Solo quattro ma i voti raccolti sono quattro milioni e mezzo (il 14%) e sommati a quelli conservatori restituiscono l’immagine di una destra divisa e sconfitta in Parlamento ma maggioritaria nell’opinione pubblica. Sir Keir Starmer terrà sicuramente a mente che il voto è stato soprattutto “contro”: contro l’inefficienza, la sciatteria, le promesse fasulle, l’assenza di moralità pubblica rese manifeste da ben cinque governi conservatori in 14 anni. Come nel resto d’Europa, gli elettori impoveriti e spaventati hanno soprattutto votato contro le élites di governo. A Londra erano di destra, e la destra ha pagato il prezzo delle sue scelte sciagurate, a cominciare dalla Brexit. Pur di cambiare, e radicalmente, gli inglesi si sono affidati al leader laburista sebbene per molti rappresenti ancora un mistero. Del resto, è entrato in politica solo nove anni fa, e questo è un merito agli occhi del pubblico disgustato dal Palazzo. Dagli elettori Starmer ha ricevuto un assegno in bianco. Deve ripagarlo al più presto, contrastando in primo luogo il declino economico e lo sfacelo della sanità. Come Blair 27 anni fa, ha accolto i risultati ufficiali al sorgere del sole indicando a un Paese triste, smarrito, sfiduciato, «l’alba di un nuovo giorno». Londra stanca di lacrime è ansiosa di credergli. Sir Keir non può deluderla, se non vuole che il Big Ben faccia seguire all’aurora un tramonto anticipato.