Donald Trump e i dazi, una risposta sbagliata: ma gli americani vivono sopra i loro mezzi da più di 40 anni

Non siamo ad affermazioni del tipo «abbiamo scherzato», ma quasi. La retromarcia sui dazi «reciproci» annunciata via social, dalla piattaforma Truth di cui Donald Trump è proprietario, ha sorpreso molti osservatori. Dopo una settimana di passione, i mercati finanziari hanno tirato un sospiro di sollievo prendendo per buona la promessa di moratoria di novanta giorni sulle tariffe doganali verso il resto del mondo. L’obiettivo, ora, non è più combattere con pesanti dazi lo squilibrio commerciale nei confronti dei paesi cosiddetti amici, ma colpire l’unica economia che può contrastare sul piano geopolitico ed economico gli Stati Uniti. Questo paese è la Cina i cui beni sono colpiti da dazi saliti nel frattempo al 145%.
Se i metodi poco ortodossi, da bullo del quartiere globale abbiamo già scritto, sono discutibili e pericolosi per la stabilità economica internazionale, il problema del «doppio deficit» statunitense, ovvero la coesistenza di un deficit fiscale (di bilancio pubblico) e di un deficit delle partite correnti (di bilancia commerciale), è una questione che persiste da anni e continua a generare dibattito.
Il deficit fiscale degli Stati Uniti è cresciuto negli ultimi anni, alimentato da spese pubbliche elevate ed entrate fiscali insufficienti a coprirle. Ad aprile 2025, il debito pubblico federale è stimato intorno ai 35.000 miliardi di dollari, con un deficit annuo che supera regolarmente i duemila miliardi, pari a circa il 6-7% del PIL. Un programma di deficit spending che ha sostenuto di fatto la crescita statunitense negli ultimi anni.
Parallelamente, il deficit delle partite correnti riflette un’eccessiva dipendenza dalle importazioni rispetto alle esportazioni. Gli Stati Uniti importano più beni e servizi di quanti ne esportino, con un disavanzo commerciale che nel 2024 ha raggiunto circa 900 miliardi di dollari, secondo le stime recenti. Questo squilibrio è finanziato da capitali esteri, che acquistano titoli di Stato americani, sostenendo il dollaro come valuta di riserva globale.
Il «doppio deficit» resta problematico perché, sebbene gli USA possano finanziarlo grazie alla fiducia nel dollaro e alla domanda di Treasury, questa situazione non è necessariamente sostenibile a lungo termine. Nell’ultima settimana, per esempio, il flusso di capitali verso gli Stati Uniti sembra essere diminuito come pure l’attrattività dei titoli a stelle e strisce. Il presidente del consiglio di amministrazione dell’operatore borsistico europeo Euronext, Stéphane Boujnah, ha parlato a France Inter martedì di questa settimana di «un movimento di investimenti che abbandonano gli Stati Uniti per reinvestire in Europa». Inoltre, un aumento dei tassi d’interesse per contrastare l’inflazione, il cui ritorno è sempre possibile in un ambiente in cui i beni importati diventano sempre più cari, potrebbe rendere il debito più costoso da gestire, mentre una perdita di fiducia nella capacità americana di ripagarlo potrebbe destabilizzare i mercati. È quello che è successo dopo il crollo di Lehman Brothers nel 2015 invischiata nel caso dei titoli subprime. In quell’occasione si era in una situazione di crisi della finanza privata, ma gli effetti - moltiplicati per 10 - non sarebbero dissimili con i Treasury nella parte dei subprime. Inoltre, il deficit commerciale erode posti di lavoro manifatturieri interni, alimentando tensioni politiche e sociali.
Il riassorbimento degli squilibri commerciali necessiterebbe di un intervento internazionale con un approccio multilaterale. In passato, dopo crisi finanziarie globali, si sono evocate - invano, è giusto ricordarlo - nuove Bretton Woods per impedire che si creassero i presupposti all’origine dei disastri finanziari. Il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) hanno cattiva fama, ma sono le uniche istituzioni eredi (almeno le prime due, la terza è più recente essendo stata fondata nel 1995) sopravvissute agli stessi accordi di Bretton Woods. L’OMC è quindi l’unico organismo internazionale che regola le relazioni commerciali fra Stati a livello mondiale. È lì che gli Stati dovrebbero trovare un luogo istituzionale per appianare le loro controversie in un sistema commerciale multilaterale. Donald Trump, fin dal suo primo mandato, considera l’OMC un intralcio alla sua politica, per giunta schierata a favore della Cina. Con queste premesse, il conflitto commerciale durerà ancora a lungo.