L'editoriale

I sauditi e la presunta supremazia del calcio europeo

L'offensiva di Riad, un colpo di mercato dopo l'altro, non ha molto di sorprendente - L'Occidente si aggrappa a Mbappé e ad altri baluardi, ma la situazione - oramai - è fuori controllo da tempo
Massimo Solari
18.08.2023 06:00

Un colpo di mercato dopo l’altro, l’offensiva saudita ci ha travolti. Intontiti. Indignati, anche. Eppure, da qualsiasi angolatura la si osservi, la strategia di Riad non ha molto di sorprendente. Il cinismo e l’assenza di moralità, purtroppo, non sono merce rara nel mondo del calcio. Men che meno nell’era della globalizzazione e degli interessi commerciali incrociati. Per dire: perché mai la razzia di tanti campioni che hanno illuminato il palcoscenico europeo dovrebbe fare più rumore – e causare maggiore smarrimento – della massiccia importazione di armi nel quadro del conflitto con lo Yemen? Chi ha fatto questi affari? Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Svizzera… Certo, la violazione dei diritti umani perpetrata dal regno di Mohammed bin Salman rimane ingiustificabile. Da denuncia. Nel nome del profitto, però, anche l’inammissibile sa come smussare i propri angoli. In un senso e nell’altro. Ricordate i Mondiali in Qatar? Ecco. E così, l’approdo nella Saudi Pro League dell’ex capitano del Liverpool Jordan Henderson, paladino dell’universo LGBTQ+, non ha creato insormontabili frizioni tra le parti. Non davanti a una valigetta colma di dollari. Da parte sua, e come il pioniere Cristiano Ronaldo, Neymar potrà invece convivere con la fidanzata. Da non sposati sarebbe proibito per legge, ma cosa volete che sia…

Le distorsioni del sistema, insomma, non si contano. Anzi, si accumulano, complicando la serena accettazione del fenomeno. Aggrovigliandolo. Il contratto monstre offerto alla stella brasiliana dall’Al Hilal - compresi i suoi benefit assurdi - s’inserisce in uno schema complesso. Senza via d’uscita, forse. Le regole? L’UEFA? La FIFA? Beh, avrebbero dovuto scongiurare pure i trucchi contabili delle proprietà qatariote o emiratine alla testa di PSG e Manchester City. O, ancora, limitare le derive delle multiproprietà. Macché. Con il Mondiale per club a 32 all’orizzonte (nel 2025), già si sussurra di wild card da destinare al vincitore della Saudi Pro League per la nuova Champions che scatterà tra un anno. E a proposito dei nuovi padroni del calcio. Ai tifosi del Newcastle, di ritorno in Champions dopo vent’anni, il Fondo per gli investimenti pubblici (PIF) dell’Arabia Saudita – alla base dell’acquisto del club, nel 2021 – non dev’essere sembrato poi così torbido al termine della scorsa stagione. Così come i sostenitori del Chelsea non rinnegheranno mai i titoli e la Champions conquistati grazie ai mezzi dell’oligarca Roman Abramovich. La distanza che separa i capitali statunitensi e russi da quelli provenienti dai Paesi del Golfo, quindi, è davvero così ampia? Di certo i primi (quelli americani e dei relativi fondi d’investimento) danno meno fastidio. Permettono, non senza un pizzico di arroganza e parossismo, di ritenere ancora «nostro» il gioco e il club che lo esprime. Ma, suvvia, sappiamo bene che si tratta di un’illusione. E che, fra un magnate e l’altro, una vagonata di milioni per assicurarsi Kane o Caicedo, il concetto di «calcio popolare» non è mai stato così stiracchiato.

Chiamata a diversificare un’economia votata quasi esclusivamente agli idrocarburi, l’Arabia Saudita ha sfruttato la legge del mercato, trovando nel calcio uno strumento perfetto per emergere anche sul piano turistico e dell’intrattenimento. L’intrattenimento e i suoi introiti, già, portati all’estremo e a quote irraggiungibili per la concorrenza dalla Premier League. E cioè la lega che, oggi, comincia a sentirsi insidiata. All’onda d’urto del calcio inglese – quello per club – il resto d’Europa ha saputo adattarsi. A cascata, lo stesso hanno fatto i campionati minori, sempre più a rimorchio dei big 5. Ogni realtà ha sin qui trovato il modo per sopravvivere. Bilanciando narrazioni romantiche, legate alla storia e ai simboli di questa o l’altra squadra, e però accettando l’eventuale avvento di capitali stranieri. Non solo. Nel caso dell’Occidente, nel nostro caso, preferiamo guardare a chi non è partito. A chi, come in passato, preferisce comunque scalare la piramide calcistica del Vecchio Continente, su su, fino ai palcoscenici più importanti. La data di nascita dei vari Benzema, Mané, Mahrez, la carriera mai sublimata di un Brozovic o un Milinkovic-Savic, ma altresì il richiamo della Mecca per molti giocatori di fede musulmana, sono appigli o attenuanti, con i quali autoconvincersi di una supremazia fragile ma comunque resistente. La diga europea, insomma, sembra reggere. Per il momento regge. E con lei il suo baluardo più importante. Kylian Mbappé ha scelto di restare. Nonostante le mille ragioni che lo spingevano a partire. A cedere. Dalle scelte future del fenomeno francese e di altre figure – pensiamo ad Haaland, Vinicius, Bellingham, Gavi – dipende la credibilità e la presunta unicità di ciò che non possiamo più controllare. Da molto tempo. 

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