L'editoriale

La famiglia e la politica dei piccoli passi

Appare anacronistico che oggi in Svizzera non si possa ancora parlare di congedo parentale e quindi le novità al riguardo sono benvenute, ma occorre anche evitare di fare il passo più lungo della gamba
Paolo Gianinazzi
17.07.2024 06:00

La società, pare quasi inutile dirlo, sta cambiando a passi da gigante. Basti pensare, per dare qualche cifra, che nel 1992 (non certo 100 anni fa), in Svizzera le coppie con almeno un figlio in cui il padre lavorava e la madre era senza attività professionale rappresentavano quasi il 50% dei «modelli di famiglia». Oggi – il dato più recente è del 2022, trent’anni più tardi –, tale quota è scesa al 13,5%. Il tutto, ovviamente, a favore di modelli in cui le madri (e in diversi casi anche i padri) lavorano a tempo parziale, condividendo maggiormente la cura del figlio. Oggi, per farla semplice (ma ovviamente il discorso da affrontare sarebbe molto più complesso), sovente per una famiglia un solo stipendio non è più sufficiente per arrivare con tranquillità a fine mese. E, in questo contesto, appare pressoché anacronistico che in Svizzera non si possa ancora parlare di un vero e proprio congedo parentale. Ossia di un congedo in cui i genitori possano scegliere in autonomia e in libertà, secondo le loro necessità, come godere (almeno in parte) delle settimane pagate di assenza dal lavoro per gestire i primi intensi mesi di vita del figlio. Il voto popolare a Ginevra, così come quello del Gran Consiglio ticinese e di tante altre iniziative depositate di recente in altri Cantoni, dimostrano che in Svizzera è tempo di legiferare al riguardo. La società sta cambiando e anche le sue assicurazioni sociali sono chiamate a stare al passo. La prima apertura da parte del Consiglio federale (che consentirebbe perlomeno ai Cantoni che lo desiderano di fare un passo in quella direzione) è quindi benvenuta. Ma, va anche detto, sarebbe ben più auspicabile una soluzione sul piano nazionale. Anche solo per evitare che i «soliti» Cantoni più ricchi (vero Zugo?) si possano permettere congedi lunghissimi, a fronte dei Cantoni più poveri (vero Ticino?) che semplicemente faticherebbero, per una questione di finanze pubbliche, a implementare una misura simile. È un bene dunque che, come fatto dai Giovani del Centro, come ventilato dai Verdi, e come proposto dalla Commissione federale per le questioni familiari (COFF), si stia iniziando a ragionare sul piano federale a soluzioni di varia natura. Ma è proprio la soluzione proposta dalla COFF che ci permette, anticipando un po’ i tempi, di intravvedere quale sarà il vero ostacolo da sormontare quando si arriverà al dunque: il finanziamento di tale misura.

Nel confronto internazionale la Svizzera è nei bassissimi fondi della classifica in termini di «generosità» dei congedi. Qualche settimana in più, dunque, sarà sicuramente promossa. E anche benvenuta, se si vuole veramente iniziare a contrastare il preoccupante fenomeno della denatalità. Ma, se da una parte molti concordano sulla virtuosità del congedo parentale per sostituire i due congedi separati (di maternità e di paternità), ben diverso sarà il discorso sul numero in più di settimane da concedere. Occorrerà trovare un punto di equilibrio tra le necessità delle famiglie e quelle dell’economia.

Le 38 settimane proposte dalla COFF (oltre il doppio di quelle attuali, per un costo stimato tra i 2,4 e i 2,7 miliardi di franchi), ad esempio, appaiono già oggi come una proposta irrealizzabile. La 13.AVS insegna: un conto è promuovere una misura benvista quasi da tutti, un altro è trovare i soldi per finanziarla. Spoiler alert: come per la 13.AVS, anche il congedo parentale sarà pagato da tutti noi e dalle imprese, con le nostre imposte o tramite l’aumento dell’IVA. «Siamo in Svizzera e i soldi ci sono», viene spesso ripetuto. Sì, è vero, ma sarebbe anche auspicabile (eufemismo) evitare di ritrovarci tra 10 o 20 anni con bellissime assicurazioni sociali e, allo stesso tempo, con l’IVA al 20% e il costo del lavoro simile ad alcuni Paesi vicini al nostro. In questo senso la proposta dei Giovani del Centro (pari a 20 settimane, quattro in più di quelle attuali) appare più come una buona base di partenza per iniziare a ragionare su un cambiamento necessario, sì, ma senza fare il passo più lungo della gamba. La politica dei piccoli passi al posto di rivoluzioni che, sul lungo periodo, rischiano solo di trasformarsi in un «boomerang».