L'editoriale

Le rose di Trump e le spine degli altri

È assai triste e incomprensibile - soprattutto per chi è figlio del Novecento ed è vissuto nel mito americano - che tra Paesi alleati, in un Occidente liberale ormai minoranza nel mondo globale, vada in scena un divorzio sentimentale e di valori così clamoroso
Ferruccio de Bortoli
Ferruccio de Bortoli
04.04.2025 06:00

Bisogna dire la verità. Trump è uno straordinario intrattenitore. E anche l’operaio intervenuto nel giardino delle rose della Casa Bianca - presunta vittima della globalizzazione - sembrava un professionista. Per eloquio e postura. Un ipotetico cittadino di un altro pianeta, che fosse stato presente, avrebbe ricavato l’idea di un’America che giustamente si ribella a un mondo di ladri seriali. Trattati dal presidente come tali, se non peggio. Protezionisti della peggiore risma. Parassiti. Ci si domandava, mentre Trump illustrava una tabella dalla grafica antiquata con percentuali oscure e arbitrarie, come mai un grande Paese ci abbia messo così tanto a respingere un’ingiustizia così plateale. Se mai noi europei siamo stati ingrati, beh allora i nostri amici (continuiamo a considerarli tali) sono stati almeno ingenui, sciocchi per non dire peggio. Lo show del «giorno della liberazione» è stato perfetto. La realtà è molto diversa. Ora siamo tutti prigionieri del timore che gli effetti dei dazi possano provocare una guerra commerciale dagli esiti imprevedibili. La Svizzera e i Paesi dell’Unione europea sono molto esposti, avendo rapporti consolidati ed essendo anche snodi di importanti catene del valore. Gran parte degli scambi avviene all’interno delle filiere delle multinazionali, soprattutto a stelle e a strisce. Sostituire i fornitori da un giorno all’altro non è poi così facile, visti i livelli alti di efficienza e qualità. Né lo è aprire uno stabilimento negli USA per aggirare le misure tariffarie. Il loro calcolo è stato acrobaticamente deciso dividendo il deficit commerciale per il livello dell’export del partner. Per azzerare i surplus, sinonimi di truffa. Berna non penalizza al 61 per cento le importazioni dagli Stati Uniti, né l’Unione europea al 39 per cento. All’Italia poi è andata relativamente bene. Conteggiata da sola - come la Svizzera colpita al 31 per cento - avrebbe avuto dazi superiori al 20 per cento deciso per tutta l’Unione europea. Quello che è avvenuto il 2 aprile, al di là del valore concreto dei dazi annunciati, rappresenta un segnale inquietante di perdita di fiducia complessiva nel funzionamento delle relazioni di qualsiasi natura. Non solo tra Paesi, ma tra comunità, ambienti professionali, accademici. Non è una questione solo commerciale. Il danno indotto e potenziale è superiore a quello che i mercati finanziari e gli indicatori economici possono registrare.

Ieri le Borse sono crollate. Il Nasdaq non è mai andato così male negli ultimi due anni. Il dollaro si è indebolito, il petrolio pure. Una reazione che ha penalizzato più i potenziali beneficiari della nuova e promettente «età dell’oro» di Trump che gli ingrati e gli egoisti partner commerciali. Possibile che siano tutti così miopi, anche gli operatori americani, da non aver compreso subito la portata rivoluzionaria di questa svolta? Tutti temono una contrazione degli scambi, una crescita più bassa se non addirittura una recessione, un’inflazione superiore che potrebbe costringere la Federal Reserve ad aumentare i tassi e non a diminuirli come spera Trump. Il dilemma dei Paesi europei colpiti è tra una ritorsione (probabilmente anche sul lato dei servizi nei quali il surplus è americano), suscettibile di amplificare i costi complessivi, e una negoziazione accomodante in cerca di una corsia preferenziale. È il dilemma del prigioniero, costretto a scegliere se collaborare o no. Ma c’è anche un aspetto di dignità nazionale che prevale sugli interessi delle categorie colpite. E non costituisce un dilemma bensì una via obbligata. Il rispetto reciproco è una condizione irrinunciabile in un rapporto di fiducia. Se non c’è il primo non c’è la seconda. Ed è assai triste e incomprensibile - soprattutto per chi è figlio del Novecento ed è vissuto nel mito americano - che tra Paesi alleati, in un Occidente liberale ormai minoranza nel mondo globale, vada in scena un divorzio sentimentale e di valori così clamoroso. Altro che dazi.

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