L'editoriale

L'esercizio democratico e i tempi moderni

Il dato della partecipazione che colpisce e poi finisce nel dimenticatoio - Come si può reagire?
Gianni Righinetti
12.03.2025 06:00

È il primo dato che emerge dallo spoglio delle schede per un’elezione o per una votazione. Stiamo parlando della percentuale della partecipazione, a prima vista il termometro per misurare l’interesse/disinteresse di una chiamata alle urne. Quella doppia cifra (con o senza virgola) è da sempre al centro dei commenti, finanche delle speculazioni. Molto spesso gli sconfitti si aggrappano al dato partecipativo per motivare e giustificare la malparata a suon di «se», «ma» e «però», facendo sfoggio di fantasiose teorie, pur di non dire «abbiamo sbagliato tutto». La scusa di fare pesare sulle spalle dei «disertori del voto» ogni motivazione della batosta, è seconda solo all’ormai stucchevole scusa degli ìmpari mezzi impiegati nella campagna in vista dell’appuntamento. Poi, passata questa fiammata, i vincitori salgono in cattedra, festeggiano, brindano e la partecipazione finisce presto nel dimenticatoio, buona solo per le tabelle statistiche. Nessuno si pone più interrogativi all’insegna del «perché?» oppure «come si potrebbe migliorare?». Sostanzialmente il tema viene riposto in un cassetto fino al prossimo appuntamento con quell’esercizio democratico del quale, lo ammettiamo, andiamo fieri. Nella nostra democrazia diretta il popolo elegge, il popolo decide, il popolo è al centro dell’azione della propria nazione, indubbiamente di quella elvetica. Votare è un diritto, ci verrebbe da dire che è pure un dovere (non strettamente giuridico, ma indubbiamente dal profilo etico e sociale), fatta salva la sacrosanta libertà di non votare. Con l’eccezione di Sciaffusa dove votare è un obbligo e chi non lo rispetta viene multato. Qualcosa di semplicemente aberrante in una società liberale. Ma il deterrente ha resistito fino a qualche anno fa, mentre oggi una grande fetta del corpo elettorale preferisce la punizione pecuniaria piuttosto che votare o eleggere: alle ultime cantonali la partecipazione è stata solo del 53,9%

Storicamente il Ticino è nel terzetto (con Sciaffusa e Vallese) di testa e nel 1991 (in concomitanza con la nascita della Lega), votò il 72,2% degli aventi diritto. Oggi, dato del 2023, siamo al 56%, molto meno, ma sempre meglio di un numero considerevole di Cantoni nei quali la «normalità» si è ormai assestata sul 30% o poco più: della serie solo un terzo degli elettori risponde «presente». La domanda delle domande (quelle che non hanno mai risposte certe) è: cosa si può fare per invertire la rotta tendente alla decadenza? Non basterebbe neppure la bacchetta di Harry Potter per cambiare le cose, ma quello che è innegabile è che la nostra democrazia regge. Eccome se regge. Anche perché chi non vota agisce spesso coscientemente, è una sua espressione, un suo orientamento. Una protesta, addirittura un malessere. Ma non è un partito, altrimenti dominerebbe la scena. Tocca a chi è nel ring della politica captare questi sentimenti, attirarli e tentare di declinarli in spinta elettorale democratica. Oggi vediamo almeno un paradosso: cresce il numero dei partiti e scende il loro gradimento da parte dei cittadini. Meno partiti significherebbe ancora minor partecipazione? È fortemente probabile. I tanto vituperati «partitini» oggi hanno legittimità democratica e artificiali soglie di sbarramento finirebbero per creare più danni che benefici alla nostra democrazia. Talvolta si parla di «stanchezza democratica», ma sarebbe forse il caso di descriverla come un fuggire dall’ipertecnicismo politico che sforna spesso proposte di una complessità sconcertante al punto da costringere i fronti contrapposti in vista di una votazione a semplificare e storpiare il significato intrinseco dell’oggetto sul quale esprimersi. Eppure, va ammesso che oggi votare è un esercizio semplice, fin elementare con la busta da compilare al domicilio e semplicemente inserire nella bucalettere. Nella società liquida cresce l’elettorato d’opinione a svantaggio di quello d’appartenenza, il tutto anche perché il nostro sistema democratico si è sviluppato su mezzi solidi d’informazione, come ad esempio i giornali, che veicolano nero su bianco tutto, con dovizia di particolari, posizioni e fronti schierati. L’online e soprattutto i social non sono mezzi che calzano a pennello per la divulgazione dell’esercizio della conoscenza democratica. Non si tratta di fare i retrogradi, ma di riconoscere che il mordi e fuggi non fa rima con conoscenza in piena coscienza. La toccata e fuga non permette di affondare radici, non genera convinzioni certe. Lunga vita alla nostra democrazia, perché, siamo convinti con Winston Churchill che «è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora». Alle prossime elezioni cantonali mancano due anni. Chissà se qualcuno si produrrà in uno sforzo concreto per tentare di aumentare la partecipazione o se, arrendevolmente, nell’aprile del 2027 attenderemo quel primo dato fornito dalla Cancelleria dello Stato per riprendere il solito trito, ritrito e ridondante discorso?

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