L'editoriale

Stati Uniti, rapidità decisionale e rischio di paralisi

Il modus operandi di Donald Trump solleva più di un dubbio: d'accordo l'intenzione di porre fine alla guerra in Ucraina, ma il tycoon non aveva anticipato che si sarebbe schierato con i russi
Osvaldo Migotto
05.03.2025 23:30

«Abbiamo realizzato di più noi in 43 giorni di quanto la maggior parte delle amministrazioni sia riuscita a realizzare in quattro o otto anni, e siamo solo all’inizio». Ad affermarlo, con la sua proverbiale modestia, è stato il presidente USA Donald Trump nel discorso tenuto martedì davanti al Congresso, riunito in sessione plenaria, a meno di due mesi dal suo insediamento alla Casa Bianca. Una sorta di discorso sullo stato dell’Unione nel quale più che sui futuri passi che la nuova dirigenza politica del Paese intende compiere si è insistito sui traguardi già raggiunti.

Il nuovo condottiero degli Stati Uniti, in un discorso fiume di oltre un’ora e mezza (record storico a livello nazionale) ha tra l’altro sottolineato di aver firmato quasi 100 decreti presidenziali e adottato più di 400 misure esecutive. Provvedimenti ripetutamente promessi nel corso dell’infuocata campagna elettorale, come l’avvio della deportazione di massa degli immigrati irregolari e l’introduzione di forti dazi nei confronti dei principali rivali commerciali, Europa compresa.

Verrebbe dunque da dire che gli americani hanno un presidente che rispetta gli impegni presi con l’elettorato. Solleva però più di un dubbio il modus operandi del neo inquilino della Casa Bianca che aveva ad esempio affermato che intendeva porre fine in brevissimo tempo alla guerra tra Russia e Ucraina, ma non aveva anticipato che per ottenere l’importante risultato si sarebbe messo dalla parte dei russi, accusando il presidente ucraino Zelensky di essere un despota per non aver organizzato le previste elezioni presidenziali.

Piccolo dettaglio sfuggito a Trump: organizzare una campagna elettorale sotto le bombe russe non è certo cosa semplice. Ad ogni modo, nel suo intervento davanti al Congresso Trump ha relegato la politica estera nella parte conclusiva per rendere noto che il presidente ucraino Zelensky alla fine ha ceduto alle pressioni USA ed ora è pronto ad accettare le linee guida di Washington relative al piano di pace con la Russia, ed è pure disposto a trattare con gli Stati Uniti per un accordo sullo sfruttamento delle terre rare ucraine.

Agli americani, a cui ha dedicato la maggior parte del suo discorso, il commander-in-chief è invece tornato a promettere un’era d’oro, condendo il suo discorso con nuove e irrispettose critiche al suo predecessore, responsabile, a suo dire, di tutti i mali del Paese. Evidente il gelo creatosi tra i parlamentari democratici e Trump durante il suo lunghissimo intervento. Paradossalmente il neo presidente sta mostrando più empatia nei confronti del dittatore russo Putin (lui sì indice elezioni di ogni genere, ma poi elimina fisicamente o esclude dal voto chiunque potrebbe contrastare il suo potere) che nei confronti dei suoi avversari politici interni.

È vero, per porre fine a uno spaventoso conflitto che finora ha causato migliaia di morti e feriti e gravissimi danni materiali occorre anche del pragmatismo, come scendere a patti con la Russia. Ma The Donald che in più di un’occasione ha sottolineato di essere un uomo d’affari piuttosto che un politico, sembra dare la priorità ai guadagni che una pace ingiusta tra Mosca e Kiev potrebbe assicurare a Washington, piuttosto che ai buoni rapporti con l’opposizione interna e con i tradizionali alleati occidentali.

L’inquilino della Casa Bianca ha ammesso che la sua guerra dei dazi potrebbe creare qualche scompenso agli USA, ma che alla fine porterà i risultati sperati. La prima reazione della Borsa di New York all’annuncio del varo di nuovi balzelli sulle importazioni non è stata positiva. Del resto diversi economisti hanno già messo in guardia sui rischi legati a una guerra commerciale. La velocità con cui l’ex palazzinaro di New York mette in pratica le sue strategie potrebbe non essere necessariamente un pregio. Sarà comunque il tempo a dirci cosa porterà agli americani e al mondo il ciclone Trump.

I parlamentari repubblicani per ora esultano e martedì hanno reagito con ripetute ovazioni alle promesse e alle affermazioni del loro leader. Oggi però al presidente è arrivato un schiaffo dalla Corte Suprema USA, a maggioranza repubblicana, che ha respinto la richiesta di Donald Trump di mantenere congelati i miliardi di aiuti esteri approvati dal Congresso per USAID, l'agenzia governativa americana che si occupa di sviluppo economico e assistenza umanitaria in molti Paesi.

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