Il commento

J.D. Vance e un discorso pericoloso

Demonizzando la lotta alla disinformazione, il vicepresidente statunitense promuove un fenomeno, il bothsidesism, che ha già causato danni incalcolabili
Giacomo Butti
15.02.2025 12:00

Quello pronunciato dal vicepresidente statunitense J.D. Vance a Monaco, all'annuale Conferenza di sicurezza, è un discorso che sta facendo discutere. In un'edizione che, per ovvie ragioni, verterà soprattutto sull'approssimarsi – come annunciato mercoledì da Donald Trump – dei negoziati fra Russia e Ucraina, il braccio destro del tycoon ha preferito, invece di rassicurare sulle tante perplessità emerse in questi giorni sul tema, compiere un vero e proprio attacco frontale all'Europa. No, a Monaco, Vance non ha parlato del perché Trump abbia annunciato l'inizio delle trattative senza prima discuterne con il leader ucraino Volodymyr Zelensky, né ha spiegato perché Washington – tramite le parole espresse in questi giorni dal contestato segretario alla Difesa Pete Hegseth e da Trump stesso – abbia subito aperto la porta a concessioni territoriali di Kiev a Mosca, andando contro ai concetti di pace giusta sin qui sostenuti dagli alleati dell'Ucraina.

A Monaco, appunto, J.D. Vance è andato in tutt'altra direzione e, salendo in cattedra, ha accusato i leader europei presenti di aver abbandonato le radici di «difensori della democrazia» per abbracciare una progressiva chiusura alle voci dissenzienti. Peggio: di aver nascosto dietro il pretesto della lotta alla "disinformazione" (termine che Vance ha furbescamente collegato all'era sovietica) i fini maligni di chi «semplicemente non ama che qualcuno con un punto di vista alternativo possa esprimere un'opinione diversa». Insomma, parafrasando l'espressione comunemente attribuita a Luigi XIV (ma mantenendone intatta la boria), l'originario dell'Ohio sembra quasi essersi presentato in Germania con l'obiettivo di impartire una lezione a degli allievi indisciplinati, portando all'attonita platea un messaggio a nome degli Stati Uniti d'America: «Guardate a noi: la démocratie, c'est nous».

Sì, il discorso di Vance sta facendo discutere. Il ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius, ad esempio, ha subito definito le parole di Vance come «inaccettabili»: «Il vicepresidente statunitense ha creato l'impressione che che le minoranze siano oppresse o messe a tacere nella nostra democrazia. Sappiamo non solo contro chi stiamo difendendo il nostro Paese, ma anche per cosa».

Forse, non possiamo fare a meno di notare, il caos seminato dalle parole di Vance aiuterà a distrarre dallo stato di salute tutt'altro che rassicurante in cui versa la stessa democrazia americana, i cui delicati equilibri si trovano minacciati – come evidenziano gli appelli di numerosi studiosi americani di diritto – da una crisi costituzionale in the making, caratterizzata dall'espansione incontrollata del potere esecutivo a scapito di legislativo e giudiziario. Ma non è solo l'evidente divario fra predica e "razzolatura" a spingerci a una riflessione.

Sia chiaro: Vance non sbaglia nel definire «minacciata» la libertà d'espressione in Europa. Lo è anche quella di stampa, come lo dimostra il "caso Paragon" andato recentemente in scena in Italia. Ma, oggi, i farmaci prescritti dal medico rischiano di aggravare le condizioni del malato. La demonizzazione della lotta alla disinformazione non fa che rafforzare un fenomeno che ha già causato danni incalcolabili: il "falso equilibrio". Nota oltreoceano come bothsidesism, è la tendenza, da parte dei media, a presentare in modo equilibrato due punti di vista quando i fatti e dati, invece, premiano chiaramente un'unica interpretazione. Questo processo, generalmente non intenzionale e basato su un buon proposito – quello di evitare ogni parzialità presentando equamente argomento e controargomento –, finisce per dare l'impressione al pubblico che entrambe le ipotesi abbiano lo stesso peso e credibilità, quando in realtà non è così. Ma se la censura non è certo una via percorribile, nemmeno di fronte a palesi cialtronerie, non è eliminando la lotta alla disinformazione che la democrazia – la quale si realizza pienamente solo quando il popolo può compiere scelte informate – fiorisce.

Secondo un conteggio tenuto dal Washington Post, nei suoi primi quattro anni di mandato Donald Trump ha snocciolato – al grido di «Amo i poco istruiti!» (come testimoniano video ancora disponibili online) – qualcosa come 30.573 affermazioni false o fuorvianti: più di 20 al giorno. In tal senso la frase di nixoniana memoria pronunciata da Vance già nel 2021 – «I professori sono il nemico» – fa del vicepresidente un degno erede non solo di Trump, ma anche di un certo anti-intellettualismo che ha caratterizzato negli scorsi decenni gli Stati Uniti, come testimonia l'appello che, negli anni Ottanta, fece lo scrittore Isaac Asimov: «Il ceppo dell'anti-intellettualismo è stato un filo costante che si è snodato attraverso la vita politica e culturale [statunitense], alimentato dalla falsa idea che la democrazia significhi che "la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza"».

Che il discorso di Vance vada letto come un tentativo di esportare questa dannosa diffidenza da informazione e istruzione? Forse. Certo è che, come segnalato dai più, l'appello del vicepresidente rappresenta soprattutto un'ingerenza statunitense nei confronti del processo politico tedesco, vicinissimo alle elezioni federali. Un'Europa meno attenta ai rischi della disinformazione e prona alla totale normalizzazione di ogni retorica, anche la più estrema, farebbe la fortuna di chi agli estremi dello spettro politico ci sguazza. Un po' come la leader dell'AfD Alice Weidel, che proprio ieri – il caso – si è intrattenuta con J.D. Vance in un colloquio privato.