Società

Crescono le persone in assistenza: «Serve un cambio di paradigma»

I numeri in Ticino aumentano: come mai, e perché è così difficile uscirne? – Gli enti al fronte lanciano l'allarme
© CdT/Chiara Zocchetti
Andrea Bertagni
Andrea Bertagni
22.09.2024 06:00

Una preoccupazione tangibile. Che sprona a interrogarsi, a cercare soluzioni anche se non sono semplici da trovare. I numeri delle persone in assistenza in Ticino sono tornati a crescere - nel secondo trimestre di quest’anno i beneficiari del sostegno sociale sono aumentati dell’1,2% rispetto al 2023, raggiungendo quota 7.292 – e gli attori coinvolti, dalle istituzioni alle realtà associative, passando per gli enti che erogano le misure, si inquietano perché anche se la crescita non è alta, vedono una tendenza, un ritorno di un fenomeno che prima del Covid aveva raggiunto margini preoccupanti. Perché finire in assistenza è un attimo. Mentre uscirne non è così semplice.

Come sta sperimentando suo malgrado Jésus G., 39 anni cittadino straniero che abita nel Luganese. La storia di Jésus è una tra migliaia. Sicuramente diversa dalle altre, eppure molto uguale. Perché non sono poche le persone che finiscono in assistenza e poi, per mille motivi, non riescono più a uscirne. Come in una gabbia dorata. Anche se di dorato, a ben guardare, c’è ben poco. «È da dieci anni che cerco di trovare un lavoro fisso, ma non ci riesco», sostiene Jésus G., che è un papà divorziato e quindi rientra tra le persone più a rischio assieme a chi è più anziano e ha quindi più difficoltà a rientrare nel mondo del lavoro. Molti tentativi, tutti andati a vuoto. Nonostante l’impegno e la speranza di uscire dal tunnel dell’assistenza. Un esempio tra migliaia. Diverso, eppure molto simile agli altri. Perché le storie come quelle di Jésus non sono isolate. Del resto, le domande di aiuto stanno aumentando così come le richieste che vengono accettate dalla Sezione del sostegno sociale, l’ufficio cantonale che si occupa delle pratiche.

Tra ritardi e severità

«Quando si entra in una situazione di povertà servono più generazioni per uscirne. Non lo dico io, ma diversi studi». Danilo Forini è direttore di Pro Infirmis e vede molte persone finire in assistenza dopo che alle stesse è stata ad esempio negata una rendita d’invalidità (AI) o anche solo delle prestazioni complementari. «L’AI è diventata più severa e molte persone si ritrovano dunque a optare per il piano B». Un piano che fa rima con assistenza. Ma non è tutto. Perché Forini vede anche altro. Vede le persone chiedere l’assistenza anche quando hanno ricevuto il nullaosta per le prestazoni complementari, che però faticano ad arrivare. «Siccome serve molto tempo per avere queste prestazioni succede di rimanere anche per 6-9 mesi a beneficio del sostegno sociale. Parlo delle persone in AVS e in invalidità», precisa il direttore di Pro Infirmis.

Ma a preoccupare, a destare allarme, sono soprattutto i giovani che finiscono, appunto, al beneficio dell’aiuto sociale. Una situazione non rara, anzi. Non è insomma un caso che 13 associazioni che si occupano di minori, da Pro Juventute alle Conferenze dei genitori, hanno lanciato un appello per non restare con le mani in mano. Ma reagire. Anche perché può succedere che difficoltà economiche facciano rima anche con difficoltà psicologiche. Come del resto ha lasciato intendere la lettera che i 13 presidenti delle Autorità regionali di protezione (ARP) cantonali hanno scritto l’anno scorso al GranConsiglio. Lettera con la quale facevano notare la difficoltà di trovare servizi adeguati sul territorio per i giovani «problematici».

Nuove progettualità da attivare

Un tunnel dal quale è difficile uscire. In cui nessuno vorrebbe precipitare ma che si sta ingrossando sempre di più. «Il sistema dell’assistenza in Ticino in generale funziona, soprattutto perché integrato nel sistema della Legge sull’armonizzazione e il coordinamento delle prestazioni sociali (LAPS), che include l’assistenza come ultimo provvedimento in cascata, dopo gli altri previsti - spiega da parte sua Stefano Frisoli, direttore di Caritas Ticino, uno degli enti che si occupano di prevenire e combattere la povertà - .Andrebbe fatto però un ragionamento anche sul tema dell’attivazione delle persone che sono in assistenza. Molte di queste, per diversi motivi non sono attivabili in attività o corsi, ma rimane una quota di persone che può essere attivata. Una parte di queste viene inserita nelle misure formative, di stage o occupazionali. Credo che però ci sia margine per poter ampliare queste esperienze perché producono integrazione e nuove progettualità».

Le procedure amministrative insomma funzionano. Sono giuste. Ma forse non si adattano perfettamente alle persone per le quali sono state pensate. «Un sistema incentrato sulle prestazioni - riprende Frisoli - è centralista e necessariamente tende ad uniformare. È un sistema evidentemente rigido, che spersonalizza gli interventi e si legittima costantemente in relazioni unidirezionali: dall’istituzione alla persona senza alcuna reciprocità. Il soggetto che usufruisce del servizio in realtà diventa «oggetto» della prestazione stessa. Un sistema ricentrato sulle persone invece ha un orizzonte di riferimento completamente diverso. Rende protagonista la persona che non per slogan, ma per evidenza, viene posta al centro del sistema stesso».

«Serve un cambiamento culturale»

Per fare ciò, il direttore di Caritas Ticino, ne è consapevole servirebbe però un cambiamento culturale. «Non basta solamente l’introduzione di una norma, ma è necessario un cambio di paradigma culturale, per il quale sarebbe necessario recuperare anche tutta la dimensione di comunità, intesa come stratificazione di relazioni operative che possono abitare un territorio. Dalle aziende, alle associazioni e gli enti del privato sociale, dai corpi intermedi, alle aggregazioni informali o semplici privati cittadini, una molteplicità di soggetti legati in ultimo da un orientamento al bene comune».

Un rapporto orizzontale

Così facendo, «s’introdurrebbero criteri di reciprocità e circolarità dove ogni soggetto (non più identificato come individuo) ha la possibilità di un protagonismo vero e un rapporto orizzontale con i servizi. È un sistema generativo, perché le relazioni di reciprocità per natura sono generative. In questo contesto cambierebbero anche le modalità di relazioni tra istituzioni perché il criterio relazionale con la persona, rendebbe necessaria la risoluzione dei problemi e un dialogo tra enti diverso. Diventerebbe così possibile un maggiore coordinamento degli uffici che sarebbero così spronati a lavorare insieme scambiandosi le informazioni e strutturando insieme magari strategie e percorsi condivisi».

Tutto questo perché «un sistema erogativo anche molto funzionale rimarrebbe comunque parzialmente non rispondente, se scollato dalla dimensione di contesto», fa notare Frisoli. Che poi entra meglio nel dettaglio del sistema attuale. Un sistema che funziona. «Se il parametro di riferimento è quello economico, ossia l’erogazione delle prestazioni assistenziali, In linea di massima sì, funziona, anche se qua e là si registrano problemi puntuali». Le difficoltà piuttosto sono di altra natura. «Un elemento - riprende il direttore di Caritas Ticino - è il carico di lavoro degli operatori che sono oberati e il rapporto con l’utente a volte è soprattutto burocratico e non personale». Sicuramente, continua, c’è un problema legato alla parcellizzazione dei servizi e dei diversi sportelli a cui fare riferimento. «Ci sono situazioni oggi complesse dove chi ha diritto all’assistenza può anche essere contemporaneamente in disoccupazione o con una domanda di AI aperta. Ogni servizio ripropone schemi personalizzati e spesso assistiamo ad incomunicabilità tra i servizi stessi. Questo va oltre la volontà dei singoli operatori, ma è come il sistema si è strutturato e sviluppato che produce percorsi paralleli che difficilmente si intersecano».

L’incomunicabilità

Può succedere per esempio, «che una persona venga tassata d’ufficio, perché non ha fatto la dichiarazione d’imposta, ma in realtà è in assistenza. Oppure un ufficio ha bisogno di documentazione circa una prestazione erogata da un altro ufficio, che a sua volta ha bisogno di documenti da un altro ufficio. Il risultato sono ritardi che mettono realmente in difficoltà la persona e o la sua famiglia, oltre a costi maggiorati dati dalla moltiplicazione degli uffici coinvolti». Un altro problema «è la situazione di quelle persone difficilmente iscrivibili nel contesto classico, assistenza, disoccupazione, AI, ecc. si ricade nell’evenienza precedente, per cui una persona, magari anche pressoché analfabeta burocratico, venga palleggiata da un ufficio all’altro, senza trovare alcun riscontro». A questo si aggiunge il fatto che «molte persone con permesso B e a volte C non osano rivolgersi agli uffici pubblici per paura di perdere il diritto di restare in Svizzera. Inoltre la progressiva digitalizzazione degli uffici pubblici, se rimane molto interessante per la velocizzazione delle richieste, genera barriere di accesso ai servizi per quelle stesse persone che ai servizi sono maggiormente legate per necessità e bisogni».

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