L'analisi

I dazi rilanciano il «noi contro tutti»

«Dazi è la più bella parola del vocabolario» ha detto in svariate occasioni Donald Trump – Sarà quindi estremamente soddisfatto adesso che questa parola è sulla bocca di tutto il mondo dopo l’annuncio in grande stile di mercoledì
Elisa Volpi
06.04.2025 06:00

Dazi è la più bella parola del vocabolario» ha detto in svariate occasioni Donald Trump. Sarà quindi estremamente soddisfatto adesso che questa parola è sulla bocca di tutto il mondo (inclusi i pinguini delle isole disabitate parte del nuovo pacchetto di tariffe commerciali) dopo l’annuncio in grande stile di mercoledì.

Le borse hanno reagito male e ancora più fosche sono le previsioni economiche: l’inflazione potrebbe superare il 4%, il PIL potrebbe diminuire dell’1%, mentre il costo della vita potrebbe salire di circa 2500 $ a famiglia.

Davanti a questi pronostici è spontaneo chiedersi che cosa voglia veramente ottenere Trump con questa strategia. L’obiettivo dichiarato è di riequilibrare la bilancia commerciale (gli USA importano più di quanto esportino), ma in passato la ricetta non ha funzionato. Un secondo fine è quello di costringere le aziende statunitensi a riportare la propria produzione in America. Secondo Forbes, circa il 66% delle aziende americane esternalizza almeno un dipartimento, il che si traduce in circa 300.000 posti di lavoro trasferiti annualmente. Ma le tariffe volute da Trump mirano anche a spingere le imprese straniere a investire direttamente sul suolo americano. L’idea è che, rendendo più costose le importazioni, convenga produrre negli USA - anche se questo approccio ha dei limiti evidenti per beni legati al territorio, come il Parmigiano Reggiano o il vino francese. Infine, la speranza di Trump è quella di poter usare gli introiti dei dazi per finanziare le sue politiche economiche e magari, parzialmente, ripianare l’enorme debito pubblico americano. Il problema è che questi tre obiettivi sono in contraddizione l’uno con l’altro: se i dazi costringeranno davvero gli statunitensi a comprare meno dall’estero, allora le entrate generate dalle nuove tariffe commerciali non saranno sufficienti per diminuire il debito pubblico. Inoltre, sembra che Trump non stia considerando potenziali ritorsioni da parte dei paesi colpiti proprio su quelle aziende americane che esportano maggiormente. Ad esempio, il whiskey americano e i prodotti agricoli (come soia e grano) sono stati colpiti da controtariffe, perché facilmente sostituibili. Quindi parte delle entrate generate dai dazi potrebbero dover esser usate per aiutare i settori oggetto di ritorsione.

La risposta a cosa voglia davvero ottenere Trump, allora sembra stare più sul piano retorico/simbolico che su quello puramente economico. I dazi servono a esercitare pressione sui partner commerciali per ottenere concessioni: ridurre le proprie barriere, modificare pratiche ritenute sleali o accettare nuovi accordi bilaterali. In questo senso, le tariffe diventano uno strumento di negoziazione aggressiva, volto a riaffermare la centralità degli Stati Uniti nel commercio globale. Non dobbiamo poi sottovalutare l’impatto interno: Trump usa queste misure anche per parlare alla sua base elettorale, in particolare agli operai e ai lavoratori industriali del Midwest. I dazi sarebbero insomma il simbolo di uno Stato che torna a difendere i lavoratori americani e a sfidare la globalizzazione. Anche se discutibili sul piano economico, funzionano come strumenti politici e identitari. Quindi se a prima vista i dazi sembrano una scelta economicamente scellerata, sotto il profilo politico e simbolico, è una mossa che rafforza la narrativa trumpiana del «noi contro il mondo» che ha convinto metà degli elettori statunitensi a sostenerlo a novembre 2024.