Stranieri

«I kosovari, numerosi ma sconosciuti»

Albana Krasniqi Malaj, direttrice dell'Università popolare albanese di Ginevra, analizza il rapporto tra il suo popolo e la Svizzera
©Gabriele Putzu
Davide Illarietti
24.03.2024 18:09

«La comunità kosovara in Svizzera è numerosa ma paradossalmente spesso è anche sconosciuta». Albana Krasniqi Malaj è direttrice dell’Università popolare albanese di Ginevra, un organismo che da più di 26 anni si occupa di migliorare la convivenza tra migranti e popolazione locale. Un compito impegnativo. Dato che in Svizzera la sola comunità kosovara è composta da 115mila persone, di cui alcune migliaia in Ticino.

Numerosa ma sconosciuta, dunque. Ma come è possibile?
«Le persone di origini kosovare fanno parte del contesto svizzero dalla fine degli anni ‘60. Erano soprattutto uomini, spesso contadini, che venivano in Svizzera per lavorare stagionalmente. Solo alla fine degli anni ‘90 ci si rende conto della loro presenza, con l’arrivo dei profughi di guerra».

Oggi com’è invece il quadro?
«Oggi alle prime ondate si aggiungono i ricongiungimenti familiari. Bisogna anche sottolineare che oggi un’altra componente della popolazione albanese è costituita dagli albanesi originari dell’Albania, che dopo essere emigrati negli anni ‘90 in Grecia e in Italia, hanno trovato un lavoro, si sono naturalizzati, ma dopo la crisi del COVID sono stati costretti a trovare altri mezzi di sostentamento e hanno ripiegato con una seconda migrazione verso la Svizzera».

Se dovesse spiegare a uno svizzero la comunità kosovara che parole userebbe?
«Gli direi che si tratta di una popolazione europea, con una lunga storia nel continente, che parla albanese. Continuerei dicendogli che è una popolazione che proviene da cinque Paesi diversi: principalmente dal Kosovo, ma anche dalla Macedonia settentrionale, dal Montenegro, dal sud della Serbia e dall’Albania. Una comunità che ha inoltre tre religioni principali: musulmana di tradizione (la maggioranza), cattolica e ortodossa. È una comunità integrata e spesso orgogliosa delle due appartenenze identitarie: svizzera e albanese».

Quali sono oggi problemi principali della comunità?
«Prima di parlare dei problemi vorrei parlare dei successi nello sport, nella cultura, nel mondo accademico, nel mondo dell’imprenditoria. Xhaka, Shaqiri, Elina Duni, Orllati, Fisnik Maxville, Ylfete Fanaj e altri oggi sono svizzeri e sentono di appartenere a questo Paese che li ha adottati. I problemi di alcuni albanesi sono simili a quelli degli svizzeri appartenenti alle stesse classi sociali: occupazione, alloggio, istruzione, lavoro, isolamento, assistenza all’infanzia, vecchiaia, violenza domestica, prospettive future, manipolazioni elettorali di ogni tipo. C’è poi un altro aspetto».

Quale?
«La questione diventa più complessa quando parliamo di intersezionalità, quando si verifica un accumulo di fragilità. L’essere, ad esempio, una donna straniera che non ha la padronanza della lingua che si trova in uno stato di povertà e subisce magari delle forme di discriminazioni xenofobe. Tutto questo causa una mancanza di prospettive e di incertezze per il futuro».

Siamo molto riconoscenti alla Svizzera che ci ha aperto le sue porte nei momenti più difficili della nostra storia

La Svizzera è stata ospitale per i kosovari?
«La Svizzera è un paese ospitale. Ma è anche il paese dei paradossi. Nel complesso, gli albanesi si sentono molto ben accolti e spesso dimostrano sincera gratitudine e lealtà alla Svizzera che ha aperto loro le porte nei momenti più difficili della loro storia. Ma l’analisi potrebbe estendersi all’ospitalità, alle paure che lo straniero genera, alla paura di perdere ciò che è stato acquisito, alla volontà di «fare del bene» a condizione che lo straniero rimanga vulnerabile, ma una volta diventato pari o competitivo, diventa una minaccia».

Cosa intende?
«A volte le reazioni non sono intenzionali, ma fanno male. Le percezioni degli svizzeri e degli stranieri sono talvolta distorte. La mentalità, l’inconscio, l’abitudine, l’educazione degli uni e degli altri svolgono un ruolo importante in queste dinamiche».

Cosa resta da fare in Svizzera per una migliore integrazione?
«Vorrei dividere la questione in due parti. Da un lato si parla di riconoscimento per i post-migranti che sono nati e istruiti in Svizzera, che non hanno un proprio percorso migratorio e per i quali la Svizzera è il loro paese, l’unico che conoscono. Dall’altro lato si parla di integrazione per i migranti con un percorso migratorio personale».

Parliamo allora di questi ultimi.
«Questi ultimi devono imparare la lingua, rendersi finanziariamente indipendenti grazie al lavoro, essere protetti dalle discriminazioni, avere le chiavi per decodificare il paese ospitante, poter partecipare alla vita lavorativa. L’integrazione è un lungo processo sociale. Spesso questo compito è imputato allo straniero, ma l’integrazione degli stranieri avviene in una società pluralistica che si muove sotto l’impulso di molteplici influenze, in particolare la componente migratoria».

Come deve considerare dunque l’integrazione la nostra società?
«La nostra multiforme società svizzera deve considerare l’integrazione come un puzzle rimovibile, dove tutti i pezzi si trasformano continuamente per fare spazio a tutti. Le politiche sociali, culturali e pubbliche devono riflettere con i migranti sulle soluzioni contestuali per i diversi cantoni. Non c’è un modello da copiare, ma un modello che deve essere co-costruito per renderlo sostenibile, al fine di creare le condizioni per una convivenza nel rispetto dei valori e delle differenze nella dignità di ognuno».

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