Il personaggio

«Il pugilato è lo specchio della vita»

Il giovane Bruno Bernasconi racconta la sua passione per il ring e le prossime sfide che lo attendono
©Chiara Zocchetti
Giorgia Cimma Sommaruga
14.07.2024 12:50

Viso da bravo ragazzo, occhi sognanti. È così che si presenta Bruno Bernasconi, pugile ticinese di 22 anni che conta già 30 incontri ufficiali - 19 vittorie, 10 sconfitte e un «pareggio» - ed è fresco di vittoria dell’edizione 2024 del «Trofeo Cintura Ticinese» nella categoria 63,5 kg, un evento che viene svolto annualmente a Locarno.

Quali sono i prossimi appuntamenti sul ring?
«Tra due settimane disputerò una competizione in Sicilia, poi durante il periodo estivo farò una pausa. Ma continuerò ad allenarmi in vista dei campionati svizzeri di novembre».

Una gara a cui tiene particolarmente…
«Vero. Per ora sono il mio obiettivo più grande, sono sempre arrivato vicino alla vittoria, lo scorso anno secondo, ma non li ho mai vinti».

Ma ora ha un anno di esperienza in più.
«Proprio così. In questo sport conta molto la costanza e la disciplina. Ma questo non l’ho capito subito».

A cosa si riferisce?
«Mio papà è comproprietario della palestra dove mi alleno e che rappresento, mi sono avvicinato a questo sport all’età di 8 anni, ma non ero per niente costante e infatti ben presto ho mollato. La scintilla che mi ha fatto innamorare del pugilato, e comprenderne il suo valore, è scattata un po’ di anni dopo».

Com’è accaduto?
«Grazie ad alcuni amici ho iniziato ad allenarmi, avevo circa 15 anni. Ma non ero così coinvolto. Poi però con il loro incoraggiamento ho trovato la costanza e da lì ho capito che era il mio sport e non ho mai più mollato».

Ribellione? Il pugilato invece può aiutare molti adolescenti

Sono stati provvidenziali allora!
«Sicuramente, anche perché è con la costanza degli allenamenti che ho compreso che dentro di me c’era una voglia di rivalsa. Da ragazzino ero un po’ cicciottello, timido, poco loquace, amante della pittura e della poesia. Ho scoperto che questo sport mi permetteva di unire tutte le sfaccettature della mia personalità e migliorarmi, sia fisicamente che mentalmente. Poi…»

Poi?
«Mi sono imbattuto a scuola in una parola greca: Kalokagathia. Questo termine rappresenta l’ideale di perfezione fisica e morale dell’uomo. Sostanzialmente essere un uomo buono, di valori, che studia e apprende, ma anche un uomo che si applica fisicamente e scopre il suo potenziale. A quel punto dentro di me è nato il desiderio di impegnarmi e darmi da fare».

E quanti anni sono passati?
«Ormai sono più di 7 anni da quando ho scelto di esprimere chi sono attraverso questo sport».

Che emozione prevale quando è sul ring?
«Sicuramente la concentrazione. Io penso che il modo in cui una persona si allena spieghi bene come disputerà la gara. Io a volte in palestra sono talmente concentrato che non mi perdo in chiacchiere o a salutare chi entra in sala. Di questo non vado fiero perché forse dovrei essere più socievole, ci sto lavorando su questo aspetto del mio carattere. D’altra parte sul ring bisogna tenere il sangue freddo e non mostrare emozioni, è un po’ come una partita a scacchi, chi pensa che il pugilato sia uno sport solo fisico non ha capito nulla».

In che senso?
«Mi piace descriverlo come lo specchio della vita reale, perché ci sono momenti che si contrappongono in un match. Momenti d’intensità, di quiete apparente. È sempre una danza costante. Ci sono i ritmi da seguire, i battiti, come nella musica. Però come ci sono i battiti, ci sono anche i momenti di silenzio».

Solitamente si dice che il periodo dell’adolescenza corrisponde ad un momento di ribellione. Lei ha iniziato a prendere questo sport seriamente a 15 anni: le è capitato di sentirsi ribelle e aggressivo fuori dal ring?
«È importante per me spiegare quanto il pugilato possa invece aiutare tanti adolescenti. Secondo me la bellezza di questo sport risiede proprio nel fatto che uno abbia la conoscenza, la capacità di far del male ma l’autocontrollo per non farlo. Jordan Peterson uno psicologo canadese, affermava: aver la capacità di essere dei mostri però scegliere di non esserlo. Il fattore disciplina, pazienza e autocontrollo sono fondamentali. E in questo sport - come penso anche nella vita - nulla ti premia di più di questo».

Suo papà è coproprietario (con Andrea Ferraro) della Fight Gym Club dove lei si allena e che rappresenta, si occupa anche dei suoi allenamenti?
«No, ho 2 allenatori. Morris Ricciardo e poi l’allenatore della nazionale Federico Beresini. Mio papà si occupa della parte fisica, ed è anche il mio manager. Ovviamente avere mio papà vicino è per me una cosa bellissima, al di là del bel rapporto padre-figlio che c’è tra noi, ma proprio perché so che è una figura sulla quale posso sempre contare e con cui posso confrontarmi».

Vivere di pugilato in Svizzera? Non credo sia possibile, non è uno sporto molto promosso

Cosa si prova a far parte della nazionale svizzera?
«Mi ha reso molto umile e grato. Quando sono stato invitato ad unirmi alla nazionale è stato un onore per me, mi sono reso conto che qualcuno ha notato il mio valore, i miei sacrifici e l’impegno che ci metto. Anche se non ho ancora vinto i campionati svizzeri hanno colto che ho del potenziale e ce la metto tutta per migliorarmi ogni giorno».

Oggi compete come dilettante. Pensa che sia possibile poter vivere solo di pugilato un giorno?
«In Svizzera non credo sia possibile perché non è uno sport molto promosso. Noi a Lugano abbiamo notato un picco di interesse nello scorso anno perché ci siamo impegnati molto a fare informazione e spero io stesso di influenzare positivamente molti giovani con le mie performance. Tuttavia ritengo che al giorno d’oggi, come in passato, per diventare un pugile riconosciuto e seguito non bisogna solo vincere gli incontri».

A cosa si riferisce?
«Pensiamo a Muhammad Ali. Lui è diventato così famoso non solo perché era fortissimo ma anche perché aveva qualcosa da dire, aveva uno stile particolare, era speciale e aveva una calamita che attraeva a sé l’interesse delle persone. Ecco questa è una dote che ritengo essere importantissima per poter avere successo nello sport. Alla fine tante persone praticano sport però sono in pochi che arrivano ai massimi livelli e riescono a rimanerci a lungo».

Allora è questo il suo più grande sogno?
«No. Non voglio sembrare banale, ma il mio sogno non è tanto il successo bensì riuscire ad ispirare più persone possibili tramite questo sport. Ho solo 22 anni, ma ho come l’impressione che molte cose non vadano nel mondo di oggi. Nella nostra società tante persone non sanno come gestire i propri traumi, e come superarli. Soprattutto sempre più giovani cadono in depressione e si sentono soli. Io vorrei rivolgermi proprio a loro e influenzarli positivamente, fargli vedere che c’è un modo per stare bene. E magari non diventeranno pugili. Ma ognuno di noi ha qualcosa da dare e il messaggio che voglio trasmettere è che ognuno ha qualcosa da offrire al prossimo. Tra l’altro quando ho cominciato a fare questo sport mi son detto: Bruno non puoi farlo per qualcosa di materiale; perché quello che è materiale è effimero e prima o poi se ne va, devi ambire a qualcosa di più. Io ambisco allo sviluppo personale, migliorarsi giorno per giorno e dare questa influenza al prossimo. Perché l’energia è contagiosa».

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