Joël Dicker: «La mia ossessione è tenere il lettore lontano da Instagram»
Oggi è a Madrid (per la fiera del libro). Ma è un pezzo che Joël Dicker è volato in cima alle classifiche di mezzo mondo. Dopo il bestseller La Verità sul Caso Harry Quebert (pubblicato in italiano nel 2013), che ha venduto oltre 2 milioni di copie, lo scrittore ginevrino, che domenica prossima compirà 39 anni, non si è più fermato, inanellando un successo dopo l’altro. Tanto che anche il suo ultimo romanzo, Un animale selvaggio (uscito il 24 marzo scorso per la Nave di Teseo) in Italia ha sbriciolato ogni record e anche in Ticino è tra i libri più venduti. «Sono sempre commosso dalla reazione della gente - dice a La Domenica - quello che è importante per me non è essere lo scrittore svizzero più conosciuto al mondo, ma il feedback dei lettori sul mio lavoro».
Vero è che ormai è diventato una specie di rockstar del libro. I suoi romanzi sono tradotti in 40 lingue e hanno venduto più di dieci milioni di copie. Dal suo romanzo La verità sul Caso Harry Quebert hanno tratto anche un film. La sua fama è ormai quasi pari a quella di Roger Federer...
«Sono molto felice e commosso per tutto questo, ma non per me stesso, ma per la reazione della gente. Non penso mai di essere «il famoso scrittore svizzero». Quello che mi colpisce davvero e quello che conta per me è il feedback dei lettori sul mio lavoro, su quello che faccio. Questo è quello che è importante».
I suoi libri vendono moltissimo, ma le persone leggono sempre meno o almeno meno di prima. È preoccupato? Quale sarà secondo lei il futuro del libro?
«È vero, oggi le persone leggono meno rispetto al passato. Ecco perché dobbiamo assolutamente far sì che la gente legga di più. È così importante leggere, leggere, leggere, leggere e ancora leggere.... Il libro oggi è in difficoltà e questo deve spingerci a fare in modo che la gente legga di più. Questo è molto importante per me. È una delle cose che difendo veramente. Anche perché penso che tutti amino leggere, ma non tutti lo sanno ancora».
Quindi cosa dobbiamo fare?
«Oggi siamo in un mondo in cui le persone, fondamentalmente, vogliono divertirsi e svagarsi. Penso che siamo sulla strada giusta per far leggere di più , ma dobbiamo insistere, riuscire a farle leggere ancora e ancora, ricordandoci che il nostro nemico comune sono Internet, Instagram e i telefoni cellulari».
Una strada potrebbe essere quella di creare storie di successo come le sue, dove si intrecciano mistero, suspense e profondità psicologica. In più nel suo ultimo libro, Un animale selvaggio, emerge ancora di più una vena thriller, criminale.
«Il crimine ha un qualcosa... No, non è il crimine, ma il fatto che ci sia un qualcosa di criminale a interessare le persone. Perché tutti abbiamo questa voglia di sapere. Ogni volta che succede qualcosa per strada, il nostro primo istinto è quello di capire cosa succede. Ci avviciniamo, siamo curiosi. È per questo, credo, che oggi il crimine riscuote un grande successo. Non si tratta di voyerismo, ma semplicemente di avere piacere a soddisfare la propria curiosità».
Ritmo, suspense, colpi di scena, flashback, sono tutti ingredienti essenziali dei suoi romanzi. Questi ingredienti sono un aiuto o diventano un peso, quando bisogna usarli così spesso?
«Ritmo, suspense, colpi di scena, flashback non sono ingredienti, ma sono qualcosa che viene spontaneo, perché sono quello che serve per raccontare una bella storia. Ed è questa, in fondo, la mia ossessione, raccontare una bella storia e usare gli strumenti giusti. Dunque per me quelli appena citati sono strumenti e non ingredienti. Non penso mai «devo fare così o così». Mi lascio guidare dalla narrazione pensando «cosa c’è di buono ora per aiutare la mia narrazione? Per migliorarla? Per far accadere qualcosa nella storia e soprattutto per tenere il lettore con me?». Questo è ciò che conta. È importante che il lettore rimanga concentrato sulla storia. Prima si parlava dei nemici del libro, dei telefoni cellulari, di Instagram e di Internet. Come possiamo proteggerci da questi nemici? Io rispondo: con tutti quegli strumenti che ci permettono di tenere il lettore attaccato alle storie».
Si può affermare che il genere a lei più congeniale sia il thriller?
«Non per forza. Gli ultimi giorni dei nostri padri, il mio romanzo d’esordio, è un libro ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, dunque è un romanzo storico. Dunque, ho sperimentato anche altri generi. Inoltre, devo dire che il romanzo storico è qualcosa che mi è sempre piaciuto e mi ha sempre parlato. Oggi non so dire se ritornerò a quel genere, anche perché il romanzo storico toglie un po' di libertà creativa, ma in ogni caso è qualcosa che mi piace molto».
Il suo ultimo romanzo, Un animale selvaggio, è ambientato a Ginevra, la sua città. Perché questa scelta dopo il respiro internazionale dei suoi libri precedenti?
«Volevo scrivere un libro che parlasse anche di Ginevra e dei suoi paradossi. Ginevra è una città il cui nome è molto conosciuto in tutto il mondo, ma in fondo è una città piccola. Molto urbana, ma al tempo stesso anche molto selvaggia. La natura è vicinissima, a un tiro di schioppo, mentre l’agglomerato urbano è densamente popolato. Questa è stata l’idea di base».
Ma come le è venuta in mente la storia? Alla base c’è stato un fatto di cronaca? Un ricordo?
«Non mi viene mai in mente un’idea concreta, ma pezzi di idee. Una di queste era appunto che volevo raccontare qualcosa che fosse accaduto a Ginevra. Volevo un libro che parlasse un po’ della città e del suo paradosso».
In un'intervista lei ha detto che questo libro è stato un punto di svolta, un cambiamento importante. Perché?
«L’ho detto, è vero, ma esattamente non so perché. Però lo sento e non riesco a spiegarmelo. Forse nella mia scrittura qualcosa si è ristretto. Di sicuro, questa volta ho fatto uno sforzo particolare per avere una scrittura più fitta. Ecco perché è un libro che non è più corto degli altri che ho raccontato, ma è comunque più corto in termini di spazio, perché ha 200 pagine in meno. Quindi è un punto di svolta importante per me nel senso che ha meno parole, quello sì».
Il poeta ticinese Fabio Pusterla ha lasciato l'associazione degli scrittori svizzeri Ad*S perché, secondo lui, il ruolo dell'intellettuale è anche quello di intervenire e riflettere pubblicamente sui fatti del mondo. È d’accordo?
«Sono d’accordo sul fatto che gli scrittori e gli intellettuali devono intervenire, ma il punto è come possono farlo. Questa è la vera domanda».
Dunque, come?
«Per quanto mi riguarda penso che gli scrittori possano reagire sempre a posteriori ed è importante dare a loro questa possibilità. Se gli scrittori fossero fatti per reagire sul momento, per essere alla radio a dare la loro opinione su quello che sta succedendo ora nel mondo, non sarebbero degli scrittori, ma sarebbero dei giornalisti, dei polemisti, sarebbero quello che si vuole, ma non degli scrittori».
Quindi qual è il ruolo degli scrittori?
«Il loro ruolo è quello di riflettere, ma di lasciar passare un po’ di tempo prima di dare la loro opinione o di raccontare le conseguenze di qualcosa che è successo. Ecco perché per me, lo scrittore dovrebbe reagire nei suoi libri, e non necessariamente direttamente su un palco televisivo. Questo è quello che penso».