L'ansia dei giovani social-dipendenti
Dicono che «nomofobia» sia la parola dell’anno che volge al termine ed è significativo. Trattasi di un anglo-grecismo derivante da «no-mobile» (senza telefono) e indica la paura - si veda l’articolo a pagina 28 - di rimanere disconnessi anche solo per un momento. Darci un taglio con i social è un’utopia e un buon proposito da annotare - de-tiktokizzarsi, de-istagrammizzarsi - per l'anno venturo forse: finora di certo pochi ci riescono, e soprattutto i giovanissimi continuano a sprofondare allegramente nel mare di internet con il rischio, a volte, di annegarci.
La verità è che le connessioni di cui non possiamo più fare a meno generano, di per sé, un particolare tipo di ansia che si somma alle paure sempre più numerose - l’ultima è l’eco-fobia, la paura del disastro ambientale - di cui soffrono le nuove generazioni. È l'ansia da social, a cui è dedicato un promettente intervento dello psichiatra Michele Mattia («L’ansia e i social») all’interno del TEDx di Bellinzona che si svolgerà l’11 dicembre al Crystal Loft.
Il circuito dell’ansia
«Viviamo in una società in cui l'accesso ai social network è ancora largamente deregolamentato e in assenza di limiti assistiamo a un sovrautilizzo soprattutto da parte dei più giovani» fa notare l’esperto, che presiede dal 2013 l’Associazione della Svizzera italiana per l’Ansia e ha una lunga esperienza in ambito clinico e terapeutico sui disturbi ansiosi e depressivi. A preoccuparlo è proprio il fatto che l'età media dei pazienti con queste problematiche si sta abbassando.
«Il sovra-utilizzo delle reti sociali negli adolescenti non ha solo come conseguenza la sottrazione di tempo e attenzione ad altre attività fondamentali, fisiche, formative e sociali, e l'assuefazione alla passività tipica di chi «scrolla» per ore e ore un display senza scegliere nulla» avverte Mattia. «Il problema è che i giovani entrano in contatto con contenuti e modalità di interazione che attivano in loro il circuito dell'ansia. Lo si è visto molto bene durante la pandemia: l'ansia è innescata dall’assenza di contatti reali di relazioni dirette, che sono fondamentali per riequilibrare le emozioni».
Regole più severe
L'impatto è ancora da studiare anche per quanto riguarda le implicazioni più profonde - «l’adolescenza è una fase in cui il neurosviluppo deve ancora completarsi, si stanno dimostrando effetti permanenti da questo punto di vista» sottolinea Mattia - e non è un caso che, nell’era post-Covid, qualcosa si sia mosso sul fronte normativo. Singoli Stati americani hanno introdotto di recente dei paletti più severi - in Utah, Ohio e Texas ad esempio è necessario il consenso dei genitori - proprio a tutela delle fasce d'utenza più giovani. L’Australia settimana scorsa ha approvato un divieto di accesso ai social per i minori di 16 anni - entrerà in vigore tra un anno - e delle sanzioni fino a 30 milioni di dollari per le piattaforme che non adotteranno «misure ragionevoli» per impedire agli adolescenti di aprire un profilo (YouTube fa eccezione, in ragione della sua utilità didattica ed educativa).
«A mio avviso si tratta di un cambio di passo necessario, anche alle nostre latitudini» afferma Michele Mattia, che si occupa di sensibilizzazione e cura da tempo attività nelle scuole ticinesi su questo tema. Proprio nel mondo della scuola allo psichiatra capita «spesso di raccogliere le preoccupazioni degli insegnanti e l’auspicio di un’azione più incisiva da parte della politica anche a livello cantonale». Attualmente l’uso dei telefonini nelle scuole medie è regolato in Ticino da una direttiva del DECS, che impone di tenerli «non visibili e in modalità aereo» nel perimetro scolastico. I singoli istituti o addirittura i singoli docenti possono adottare misure più severe ma «il loro compito sarebbe reso senz’altro più facile ed efficace da un intervento legislativo deciso» osserva Mattia. Del resto è anche l’opinione e la richiesta della Conferenza dei direttori cantonali dell’educazione, che in tutta la Svizzera chiedono una normativa uniforme in senso più restrittivo.
«Demonizzare non serve»
Ma se i divieti servono nella vita pubblica - «li seguiamo per il fumo, per la guida automobilistica, è questione di abitudine» - in ambito terapeutico-educativo invece l’approccio deve essere diverso. «Demonizzare non serve a niente, anzi peggiora le cose» avverte l’esperto. «Quando viene da me un giovane con problemi riconducibili a una vera e propria dipendenza da social, e i casi sono aumentati certamente negli ultimi anni, non posso seguire la strada della disintossicazione come farei con un paziente tossicodipendente o alcolista». La social-dipendenza rientra nelle cosiddette «dipendenze senza sostanza» e i risultati migliori si raggiungono con la terapia cognitivo-comportamentale. «Occorre partire da una presa di consapevolezza dell’adolescente rispetto alle conseguenze negative che la sovraesposizione digitale ha sulla sua vita. Parliamo di giovani che passano anche otto ore al giorno al telefonino e questo ha effetti sul sonno, sull’irritabilità, sulla vita scolastica e sociale. Vanno in terapia perché sono in crisi, e solo in un secondo momento emergono le cause». La via d’uscita è una sola ed è imparare a gestire lo strumento - «è fondamentale ma va usato bene» - dandosi dei limiti progressivi. Un percorso in cui il supporto, e prima ancora l’esempio dei genitori, può essere determinante. La buona notizia è che i risultati, tranquillizza il terapeuta, sono in genere positivi.