COP29, la resa dei conti nell’anno più caldo di sempre
La resa dei conti sui finanziamenti ai Paesi in via di sviluppo è giunta alla fine di un anno che, secondo la comunità scientifica internazionale, è destinato ad essere il più caldo mai registrato. Le inondazioni diffuse hanno ucciso migliaia di persone in tutta l’Africa, mentre decine di frane hanno sepolto villaggi e piccoli centri in Asia. In Sud America, poi, la siccità ha ridotto i fiumi che, in alcune situazioni, sono tuttora corridoi di trasporto vitali.
Anche i Paesi sviluppati non sono stati risparmiati. Tutti hanno ancora negli occhi le inondazioni di Valencia del mese scorso, ma anche quanto accaduto d’estate in Ticino e nei Grigioni o, prima ancora, in Emilia-Romagna.
Intervistato dalla Reuters, Daniel Lund, negoziatore per le Fiji, ha sintetizzato in modo efficace spiegando come «in ogni caso ci sia molta strada da fare per raggiungere un accordo finanziario corrispondente all’enormità del riscaldamento planetario».
Come hanno osservato alcuni analisti presenti a Baku, la questione della mitigazione del danno ambientale e la necessità di aumentare la produzione di energia da fonti rinnovabili sono sicuramente un problema importante. Ma in modo in cui coprire i costi e i finanziamenti necessari a garantire la transizione verde ai Paesi vulnerabili e più dipendenti dalle fonti fossili, ai Paesi cioè più poveri o in via di sviluppo, è la questione fondamentale. Per questo la climate finance è stata, inevitabilmente, al centro dei negoziati, ed è alla fine deflagrata portando alla luce in modo drammatico le distanze tra il mondo ricco e il mondo che affannosamente tenta di conquistare spazi di luce.
Un recentissimo rapporto del Programma ambientale delle Nazioni Unite (UNEP), pubblicato pochi giorni fa, ha rivelato come i progressi compiuti nella direzione dell’effettivo abbandono dei combustibili fossili siano stati «scarsi». Non solo: per raggiungere l’obiettivo dell’Accordo di Parigi di limitare il riscaldamento a 1,5°C, le emissioni globali dovrebbero diminuire del 7,5% all’anno fino al 2035. Ma alcuni trend evidenziano l’impossibilità, allo stato attuale, del raggiungimento di un simile scenario. La domanda di combustibili fossili nel 2030 sarà infatti soltanto del 2% inferiore a quella del 2023, ben lontana dal calo del 43% necessario per rispettare quanto sancito a Parigi. Inoltre, soltanto 8 Stati hanno aggiornato i propri piani per aumentare le rinnovabili nel mix energetico, nonostante l’obiettivo di triplicarle al 2030, con 108 che rimangono ancora lontani dal picco dei consumi di fonti fossili. Così, mentre a Baku si discuteva (e ci si divideva) su come affrontare il surriscaldamento del pianeta, il ministro azero dell’Energia, Perviz Shahbazov, stipulava accordi sullo sfruttamento intensivo di combustibili fossili all’Istanbul Energy Forum con il collega turco Alparslan Bayraktar, decidendo tra l’altro di aumentare la fornitura di gas naturale e di accrescere le attività estrattive della compagnia petrolifera di Ankara in nuovi giacimenti nel Mar Caspio. E confermando, nei fatti, la scelta dell’Azerbaijan di espandere in modo significativo la sua produzione di metano nel prossimo decennio.