Musica

Tredici Pietro: «Non guardare giù» è un salto nel vuoto senza paura

Abbiamo incontrato l’artista bolognese in occasione del suo nuovo album, in uscita il 4 aprile – Un viaggio musicale e umano tra sperimentazione sonora e introspezione profonda
Foto Riccardo Montanari
Mattia Sacchi
31.03.2025 19:19

«Non guardare giù» non è solo un titolo. È un’esortazione, una provocazione, un grido, ma anche una carezza. È il nome scelto da Tredici Pietro per il suo nuovo album in uscita il 4 aprile 2025 per Epic Records/Sony Music Italy, disponibile su tutte le piattaforme digitali e in formato fisico. Un disco denso, viscerale, che segna un nuovo passo nel percorso artistico e personale del rapper bolognese, che il Corriere del Ticino ha incontrato a Milano negli Studi RCA di Sony Music Italy.

Pietro Morandi, in arte Tredici Pietro, ha sempre saputo cosa significa crescere sotto uno sguardo attento. Il suo cognome, noto a più generazioni, è stato per lui al tempo stesso stimolo e responsabilità. «Il mio nome è come un’incudine – racconta –. C’è chi soffre per non essere visto, e chi invece si sente esposto fin da bambino, giudicato prima ancora di potersi raccontare davvero.» In questo disco, però, quel peso si trasforma in forza.

Coprodotto da Sedd e Fudasca, con il contributo di alcuni dei producer più interessanti della scena urban italiana, «Non guardare giù» è un disco che rifiuta ogni classificazione. È trap, rap, soul, drum&bass, è pop, è rock. Ma soprattutto, è sincero. E quando un artista riesce a raccontarsi con questa trasparenza, le etichette si fanno superflue.

Foto Riccardo Montanari
Foto Riccardo Montanari

«Mi piace che il titolo lasci spazio all’interpretazione. Non guardare giù può voler dire tante cose. Per me significa non farsi distruggere da ciò che ci circonda, non fermarsi. Guardare giù, a volte, ci paralizza», racconta Pietro. «Ci sono momenti in cui analizzare tutto ti toglie il senso. È come se guardare troppo da vicino il dolore lo rendesse ancora più grande».

Un disco costruito nell’arco di due anni, con oltre cento provini registrati prima di arrivare alla versione definitiva. Un progetto che non nasconde la fatica, ma la trasforma in qualcosa di tangibile, profondo, musicale. «Quando ascolto il disco mi commuovo – ammette – perché ho fatto un lavoro importantissimo. Ho faticato tanto. Ma è stato bello, e necessario».

Una nuova consapevolezza

«Non guardare giù» arriva dopo anni di costruzione – artistica e personale – e dopo un periodo di apparente silenzio. Ma dentro quel silenzio, Pietro ha scavato, ha studiato, ha ascoltato. «Ho avuto la sindrome dell’impostore per tanto tempo. Non capivo se la gente mi ascoltava per chi ero o per il cognome che porto. Ma poi ho capito che chi resta, resta per te. E da lì ho trovato un nuovo equilibrio».

Nel disco si intrecciano vissuti personali e riflessioni più ampie, che toccano le relazioni, il senso di fallimento, le cicatrici che restano anche quando tutto sembra finito. Ma c’è anche desiderio, tensione vitale, voglia di riscatto. In «Morire», uno dei singoli usciti prima dell’album, Pietro racconta con disarmante onestà un’esperienza intima e dolorosa: «Sono stato sette anni con una persona che ha vissuto problemi di salute mentale – confessa – e questo ha lasciato un segno forte nella mia vita. Mi sento in diritto di parlarne».

Un disco identitario

Oltre che emotivamente denso, «Non guardare giù» è anche musicalmente ricco. «Mi sono lasciato ispirare da tanti ascolti, ma anche da tante sessioni di scrittura. Sono stati mesi di lavoro intensi, in cui mi sono proprio spremuto. Uno degli artisti che mi ha più influenzato in questo periodo è stato Mac Miller. Lo ascoltavo e sentivo che mi apriva nuove possibilità espressive».

L’obiettivo non era seguire la moda del momento, ma trovare una voce autentica. «Penso che sia il momento giusto per un disco identitario. Uno che dica chi sei, senza cercare l’approvazione. Io volevo fare qualcosa che fosse mio, anche rischiando».

In un panorama musicale spesso uniforme, dove la comfort zone è la regola, Pietro sceglie la strada più difficile: quella della varietà, della sperimentazione, dell’imprevedibilità. Ogni traccia è diversa dalla precedente, ma tutte portano impresso il suo sguardo. «Mi fa piacere quando mi dicono che questo disco è unico. Spero lo sia. Di certo è il più mio che abbia mai fatto».

Foto Riccardo Montanari
Foto Riccardo Montanari

Fragilità e verità

Il cuore del disco, però, non sta solo nella sua struttura musicale. È nei testi, nella capacità di spingersi oltre la superficie per affrontare tematiche spesso rimosse o normalizzate: l’ansia, l’isolamento, l’eccesso di stimoli, la dipendenza emotiva e sociale. “Siamo una generazione dopata – dice Pietro – e non solo in senso chimico. Viviamo in una società che ci chiede costantemente di performare, di mostrare solo il meglio. Ma la realtà è fatta anche di crolli, di vuoti, di momenti in cui ti senti niente.”

Il disco affronta anche il tema del futuro sospeso: “I nostri genitori avevano delle certezze. Noi no. E questo crea ansia, disillusione, rabbia. Cerchiamo un senso in una società che spesso non ce lo offre.”

La fine di una maschera

In questo album, Pietro abbandona definitivamente la paura del giudizio. Anche quello paterno. «Per la prima volta ho fatto sentire il disco ai miei genitori prima dell’uscita. Mio padre ha amato 'Respirare' e 'Tradirti'. È stato bello. Ora mi sento sulle mie gambe, non ho più bisogno di nascondermi».

«Ho sempre cercato di dire: io sono io. Se non mostro le mie fragilità, nessuno può sapere davvero chi sono. E io voglio raccontarmi».

Missione compiuta. Forse.

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