Benvenuti al nuovo Bernabéu: «Sopra le righe, come il Real»

Definirlo uno stadio di calcio non ha più senso. Il Real Madrid, padrone di casa, gioca non a caso con altre dimensioni. Dimensioni immateriali, in grado di trascendere lo spazio e il tempo. «Building a legend». Ma anche: «The building of a dream». Una leggenda e un sogno, dunque, custoditi e raccontati dal nuovo Santiago Bernabéu. Stando ai suoi fautori, né più, né meno, «il migliore stadio al mondo».
Come dare loro torto. Se in queste ore vi siete imbattuti nei video pubblicati dal club spagnolo, nell’ordine potreste aver provato: stupore, meraviglia, ammirazione. Smarrimento, anche. I lavori di ristrutturazione dell’infrastruttura volgono alla conclusione e, sabato scorso, la formazione di Carlo Ancelotti ha battezzato con una vittoria l’arena oramai rivoluzionata. Alla meraviglia di Jude Bellingham, decisiva nei tempi di recupero, hanno fatto seguito le impressionanti immagini dell’impianto. Esterne e interne. No, non solo uno stadio di calcio. Non più.
Come la Tour Eiffel
Il paragone con una navicella spaziale, al proposito, regge. Eccome. A ricoprirla, oggi, sono 7.000 tonnellate d’acciaio. E il suo peso si avvicina a quello della Tour Eiffel. Una specie di monumento, appunto, il cui restauro verrà a costare oltre 1 miliardo di euro. Una spesa, questa, segnata da due maxi-prestiti approvati dagli azionisti, quattro anni di lavori e - inevitabilmente - qualche critica a livello comunale. «Il tema è affascinante, ma il dibattito non dovrebbe limitarsi al Bernabéu» premette Emilio Faroldi, architetto, professore ordinario e prorettore vicario del Politecnico di Milano. «Una squadra come il Real Madrid - prosegue - è sopra le righe. Non fa quasi testo. La spettacolarizzazione e l’ostentazione della potenza societaria, a livello infrastrutturale, vanno di pari passo con la storia e i successi del club, il più titolato in Europa. Il 99% delle altre realtà, tuttavia, si muove su livelli differenti, con budget d’altro tipo e rapporti specifici con il quartiere o la città. Insomma, non va osservata solo la rigenerazione dell’oggetto, ma pure come questo riesce a dialogare con il contesto e i suoi utenti». Le necessità, tornando al Bernabéu, non sono più quelle del 1947, quando venne inaugurato. O degli anni Novanta, decennio caratterizzato da numerosi ritocchi allo scheletro dello stadio. «Dal loro concepimento, gli stadi hanno vissuto almeno sei generazioni» spiega Faroldi, fra i maggiori specialisti in materia. «Di volta in volta, queste strutture si plasmano a seconda delle esigenze e delle istanze richieste dalla società. Ebbene, lo stadio non è più un luogo monofunzionale, dove ci si reca per assistere a un evento specifico e di una sola disciplina. Oggi le arene sportive costituiscono autentici hub, isolati urbani che con forme diverse - più o meno eclettiche, più o meno imponenti - cercano di soddisfare quella multidisciplinarietà e multifunzionalità tipiche delle parti centrali della città. Progettare uno stadio significa inoltre progettare una realtà che ha una sua redditività, a prescindere dall’andamento sportivo».


Una serra sotterranea
Al netto del design, le novità principali del nuovo Santiago Bernabéu puntano esattamente sulla versatilità. Da un lato la copertura completa dell’infrastruttura - basteranno 15 minuti -, dall’altro un manto erboso retrattile e scomponibile in più parti, da conservare e curare in un’area sotterranea profonda 30 metri. Una serra. O meglio, un sistema all’avanguardia finalizzato allo sfruttamento del Bernabéu sette giorni su sette, con concerti, manifestazioni e pesino partite di basket, tennis e football americano. Impressionante. «Quando la tecnologia interviene in modo intelligente - sottolinea Faroldi - è destinata ad avere successo. Nel nord Europa, per esempio, la carenza di luce ha stimolato espedienti interessanti per quanto concerne il trattamento e la gestione dei campi. La movimentazione del terreno di gioco e la flessibilizzazione dell’infrastruttura, quindi, diventeranno sempre più comuni». Ma, tiene a precisare l’esperto, nel quadro di operazioni diverse fra loro. «Ogni Nazione, ogni società e ogni comune, presenta declinazioni differenti. Non siamo di fronte a tipologie o morfologie standardizzate e replicate, come in passato. Oggi esistono stadi inseriti chirurgicamente nel tessuto cittadino; altri sono invece avulsi e la loro identità si nutre proprio del contrasto col territorio. In ogni caso, come tutte le parti di città, anche gli stadi crescono su loro stessi. Il Bernabéu, in tal senso, ha avuto la forza di ricrearsi, senza cedere a un’operazione alternativa e - ripeto - con un’architettura specchio dell’epoca che stiamo vivendo. Ma a Emilio Faroldi il risultato finale convince? «Si tratta di un linguaggio da metabolizzare. Il metallo e la forma un po’ a mouse, per esempio, stridono con il contesto. In questo caso l’edificio è dichiaratamente - e uso un termine che non amo - iconico. Deve richiamare l’attenzione. D’altra parte il museo più celebre d’Europa, inteso come contenitore e non per i suoi contenuti, è il Guggenheim di Bilbao. Lo si visita perché si è interessati soprattutto all’architettura bizzarra di Frank O. Gehry. Ecco: posso immaginare che lo stesso accadrà con il Bernabéu, per altro già custode del museo più visitato di Madrid».
San Siro e la sua vocazione
Allo stadio di calcio, nel 2023, «si chiede di essere più edificio urbano» evidenzia Faroldi sempre in merito. Attenzione però: «Bisogna avere la forza politica ed economica per far sì che la salvaguardia dell’esistente, per quanto importante, non inibisca l’imprenditorialità. Perché nel momento stesso in cui facciamo passare uno stadio come un monumento, ne decretiamo la fine». La mente, va da sé, corre al rebus San Siro e agli sguardi sempre più lontani di Inter e Milan. Faroldi fornisce la sua chiave di lettura: «Chi legge gli eventi deve aver la capacità di accettare la dinamica della storia, in continua evoluzione. Se ci si affeziona a forme e figure, solo per le emozioni che hanno creato nel tempo, il rischio di congelare questi luoghi esiste. La demolizione e la ricostruzione di Wembley, tuttavia, dimostrano come sia legittimo - da parte della cultura dello sport e dell’architettura -, reinventare l’oggetto, mantenendone il sedime». Poi certo: ritoccare e migliorare è un conto, stravolgere è un altro, nota il nostro interlocutore. Prima di concludere. «Una volta guadagnata, è un peccato e soprattutto un pericolo estirpare la vocazione sportiva di un quartiere. San Siro, in tal senso, non è solo un tema di stadio. È il tema di un quartiere. Si tratta di operazioni che vanno oltre l’oggetto. La discontinuità e la diffidenza della politica, purtroppo, stanno facendo annaspare Milano».