Da quando Baggio non gioca più

«Quell’applauso, in fondo, ha riassunto tutta la mia carriera». Milano, 16 maggio 2004. Il pubblico di San Siro è tutto in piedi. Emozionato. Riconoscente. Devoto, anche. Non è ancora il momento di festeggiare il diciassettesimo scudetto rossonero. Prima c’è da rendere omaggio a un avversario. A un campione. Uno dei calciatori più sublimi della storia. Roberto Baggio.
Sono trascorsi esattamente vent’anni dal suo ritiro, consumatosi per l’appunto all’84’ di Milan-Brescia. Più che il minuto di una partita, uno spartiacque. L’eredità del Divin Codino, d’altronde, sarebbe stata impossibile da cogliere. Meglio custodirla. Meglio ricordarla. Come una partita indimenticabile o una rete iconica. Per l’eternità.
«Quel tocco di palla»
Roby Baggio, di gol, ne ha plasmati molti. E che il primo dei 205 firmati in Serie A sia caduto al San Paolo, con Diego Armando Maradona in campo e il Napoli pronto a festeggiare lo scudetto numero uno, è solo uno dei tanti segni del destino. Il destino di un genio del pallone. Benevolo. Non solo benevolo. Dieci anni prima di fare un passo indietro, di prendersi l’abbraccio commosso del Meazza, Baggio incarnava un fallimento nazionale. «Forse la gente mi ha perdonato, mi ha sempre dimostrato grande amore ed affetto; ha capito la mia sofferenza, però sono molto esigente con me stesso, per cui avevo mille occasioni per sbagliare ma non quel giorno» avrebbe affermato più avanti, tornando sul dischetto di Pasadena. La maglia azzurra è sempre stata in cima ai pensieri di Baggio, nel bene e nel male. Anche per questo motivo non ha mai voluto lasciare il massimo campionato italiano. E così, a beneficiarne sono state Fiorentina, Juventus, Milan, Bologna, Inter e Brescia. Diciannove stagioni in totale, cinque delle quali - in bianconero e al Dall’Ara - vissute con Giancarlo Marocchi. «Essere il giocatore che ha condiviso il maggior numero di partite con Baggio è una fortuna e, soprattutto, un enorme privilegio» sottolinea l’ex centrocampista, contattato dal CdT. «Ho voluto bene al calciatore e all’uomo. Un buono». E come Marocchi la maggior parte degli italiani, poco importa se situati in schieramenti opposti. «Roby andava al di là della maglia, perciò è stato apprezzato in ogni piazza. Era estetica. Era pura bellezza, con quella conduzione e quel tocco di palla superbi».


Un dieci atipico
Michel Platini gli cucì addosso il ruolo di «nove e mezzo». Per la sua capacità di illuminare e però anche di pungere. Più verticale del tradizionale dieci. Comunque magico. «Un giocatore da Pallone d’oro» sintetizza Marocchi, oggi commentatore per Sky Sport. «Nel calcio moderno, molto più fisico, si salvano invece solo i super uomini. I vari Haaland e Mbappé». Baggio, lui, era pure classe ed eleganza. «E io, le sue serpentine e le sue punizioni, me le godevo anche in allenamento» rammenta Marocchi. Per poi precisare: «Roby era un carismatico, certo. Ma in spogliatoio e in campo non ha mai fatto pesare le sue capacità nettamente superiori alla media. Non era nemmeno ossessionato dai risultati. Ad animarlo, banalmente, era il piacere di giocare».
«Un anti personaggio»
La convocazione al terzo Mondiale, quello del 1998, arrivò non a caso con la maglia del Bologna. Ispirando cori e canzoni. Da quando Baggio non gioca più, per Cesare Cremonini, non è più domenica. E a Gianni De Biasi, raggiunto al telefono, «viene un po’ da piangere». In panchina, il 16 maggio di vent’anni fa, quale allenatore del Brescia, sedeva proprio lui. «L’ultima sostituzione di Roby, nella Scala del calcio, costituì il miglior tributo possibile alla sua grandezza» evidenza il tecnico italiano. Baggio, all’epoca, aveva 37 anni. «E una passione che non riusciva più ad avere la meglio sulla caducità del fisico» riconosce De Biasi. «Eppure, in quella stagione finale, arrivarono altre dieci reti, permettendogli di abbattere la barriera dei 200. Un campione assoluto». Già, anche in un club provinciale, il club che - sempre per buona parte degli italiani - avrebbe dovuto garantirgli la quarta Coppa del Mondo della carriera, nel 2002.


«Baggio - osserva in merito De Biasi - non è mai stato divisivo a livello di opinione pubblica. Magari è accaduto con qualche allenatore. Ma non per colpa sua. Io ricordo una figura concava, non convessa. Accogliente, non respingente». E ciò nonostante l’inevitabile clamore mediatico riservato ai migliori di sempre. «Roby - prosegue il suo ex tecnico a Brescia - era una persona di un’umiltà disarmante. Non a caso, ha sempre rifuggito l’aurea di misticità che lo avvolgeva. Un anti personaggio, sì». De Biasi lo definisce pure «un doverista», alludendo al controverso rapporto con il padre e alla rigida educazione nella quale era stato imbevuto da ragazzo. L’allenatore che ne sancì il ritiro, poi, ammette. «La sua ultima stagione coincise con la mia seconda esperienza in Serie A. E oggi mi rendo conto che, allora, non ero probabilmente all’altezza di comprendere la grandezza di Roberto Baggio».