Kacper Przybylko e quei tatuaggi rivelatori: «Raccontano che calciatore sono»

Assomiglia vagamente a Viggo Mortensen. L’Aragorn de Il Signore degli anelli, per intenderci. Sul braccio destro, però, Kacper Przybylko racconta di sé con una serie di tatuaggi dedicati ad Harry Potter. E non sorprende: ad ammantare l’intervista con il nuovo attaccante del Lugano è una coltre di candore. Oltre a uno spessore umano raro quanto la pronuncia di un cognome radicato in Polonia.
Alla convivenza con i soprannomi dev’essere abituato, vero?
«In effetti (ride, ndr.). Negli Stati Uniti ero diventato per tutti Casper, “l’attaccante amichevole”. Per via del fantasma protagonista della serie animata. In Germania, dove sono nato e cresciuto, il mio cognome è invece stato sempre abbreviato in “Pritsche”».
Passare dai grattacieli di Chicago ai piccoli quartieri di Lugano è stato scioccante?
«Tutt’altro. Il mattino successivo al mio arrivo, spalancando la finestra dell’hotel, ad accogliermi sono stati il lago di Lugano e un panorama incredibile. Insieme a mia moglie, due bimbi piccoli e il nostro cane, poter vivere in una dimensione più piccola e molto accogliente, è inoltro motivo di gioia. Sul piano delle prospettive private, il giudizio sull’Europa e la Svizzera non può che essere positivo».
Bene. Ma come ci si sente - forse usiamo un termine forte - a essere scaricati a un farm team, per fare spazio ad altri? La decisione dei Fire le ha fatto male?
«Sia io, sia il club, avevamo percepito che era arrivato il momento di separarsi. Non lo ritengo in ogni caso un passo indietro. No, mi piace guardare avanti. Essere qui costituisce un’opportunità. Ho riabbracciato il Vecchio continente, con la sua cultura e le sue visioni, in modo positivo. A maggior ragione considerate le notevoli qualità calcistiche scovate a Lugano. Cornaredo, in un primo momento, doveva rappresentare una tappa intermedia, per tornare in Europa, restare in forma e trovare una nuova sistemazione. L’impatto con i bianconeri è però stato sufficientemente positivo per trasformare una soluzione temporanea in un accordo definitivo. Il club ha capito che avrei potuto dare una mano alla squadra. E io sono felice di poterlo fare».
Ha firmato un contratto valido sino a giugno 2025. Cosa sente di poter dare all’FC Lugano?
«La situazione attuale è abbastanza chiara. Sono a disposizione dello staff tecnico, cosciente delle gerarchie offensive. Sento di dover e poter spingere al limite Zan Celar e Shkelqim Vladi, due attaccanti che stanno facendo molto bene. Sì, ho la necessaria esperienza per farlo. Dopodiché, ve lo assicuro, sono affamato. Oltre che in una forma ideale. Non intendo insomma vestire a lungo i panni del jolly. Spero, al contrario, di riuscire a mettere sotto pressione la concorrenza interna e a complicare la vita all’allenatore. E se vi sarà la possibilità di prolungare il mio contratto oltre il 2025, dunque, ben venga».
A oramai 31 anni, sente di dover cogliere l’ultima chance della carriera?
«La mia età è un numero. Anche perché, ripeto, fisicamente mi sento al top. Saranno quindi le mie prestazioni a determinare se quella in bianconero sia o meno la stazione termine del mio viaggio».


Ha diversi tatuaggi. Uno in bella vista recita: «Always believe in yourself». È la filosofia che intende sposare pure a Cornaredo.
«È stato il mio primo tatuaggio. E, sì, il messaggio che veicola - interpretabile in due modi - mi ha sempre guidato. Nel calcio, dove il sostegno di chi ti sta attorno va e viene, credere in se stessi è imprescindibile. Nascondendo una parte della scritta, poi, si può leggere “Always be yourself” (sii sempre te stesso, ndr.). Un atteggiamento, questo, dal quale non intendo derogare».
Ha esordito una settimana fa, nei quarti di Coppa Svizzera vinti ai rigori contro il Basilea. E, nonostante i pochi minuti giocati, ci è parso essere fra i bianconeri più euforici. Quanto è stato bello e importante immergersi in una realtà che nutre grandi ambizioni?
«Sono riconoscente al club per avermi permesso di vestire la maglia bianconera e, di riflesso, vivere da protagonista la folle serata del St. Jakob. Mi rallegro e nutro di ogni spezzone di gara, felice di poter aiutare i compagni e la società a centrare gli obiettivi stagionali. Pensare di poter contribuire a una nuova qualificazione alle competizioni europee, al proposito, mi fa venire la pelle d’oca. Mi emoziona».
La sua è una famiglia di sportivi, è corretto?
«Ho un fratello gemello, Jacub, che al momento è semiprofessionista in Austria. Mateusz, più vecchio di un anno, si è invece laureato campione europeo di salto in alto nel 2018, a Berlino, difendendo i colori della Germania. Siamo cresciuti tutti a Bielefeld, dove i nostri genitori emigrarono in giovane età».


In Germania- tra Colonia, Arminia Bielefeld, Greuther Fürth e Kaiserslautern - ha affiancato alcuni elementi poi esplosi in Svizzera. Uno su tutti: il capitano del San Gallo Görtler. Il suo è stato un percorso diverso?
«Innanzitutto sono felice di poter ritrovare Lukas, così come della sua parabola positiva in Svizzera. Il mio percorso è stato differente per diverse ragioni. In primis poiché nel 2018, dopo un serio infortunio a un piede, in Germania mi considerarono un giocatore finito. Non ho voluto accettare questo destino. E dopo un paio di provini in Europa, al Sunderland e a Magdeburgo, fortunatamente a Philadelphia ho trovato qualcuno ancora disposto a credere in me. Rimettermi in gioco in MLS ha rappresentato la giusta decisione. La cultura sportiva degli americani è molto differente dalla nostra, vero. Ma senza quel passo, oltretutto, non avrei conosciuto mia moglie e avuto da lei due dolcissimi bambini».
Xherdan Shaqiri, con cui ha condiviso lo spogliatoio a Chicago, che impressione le ha fatto, come calciatore e come individuo?
«Tecnicamente non si discute. Con il piede sinistro fa quello che vuole. Lo seguivo già dai tempi del Bayern e del Liverpool. A impressionarmi di Xherdan, però, è stato il suo modo di presentarsi alla squadra in occasione del primo allenamento. Me lo ricordo bene. Dopo aver parlato di obiettivi, con personalità e forte della sua carriera, decise di rivolgersi al capitano, Jonathan Bornestein. Disse che a 36 anni era un modello al quale intendeva ispirarsi, per il suo atteggiamento e la sua forma fisica. Il che mi è parso molto profondo».
Oramai ha preso le misure della sua nuova squadra. Siamo curiosi: chi vincerebbe l’ipotetico match fra Lugano e Chicago Fire?
«Giocando ora per il Lugano, di sicuro vinceremmo noi (ride, ndr). Ogni lega - e torno serio - presenta le proprie caratteristiche e qualità. A mio avviso i campionati europei rimangono superiori. Ma nel rispetto di Chicago, il nostro partner team, preferisco non andare oltre».