Calcio

Ma come ha fatto il Barcellona a comprare Lewandowski?

Sommerso dai debiti e costretto a rispettare i vincoli finanziari della Liga, il club è scatenato sul mercato - Diritti televisivi ipotecati e forza del brand: ecco la strategia blaugrana
L’attaccante polacco Robert Lewandowski, 33 anni, si è legato al Barcellona per le prossime tre stagioni. © EPA/Raphael Marchante
Massimo Solari
20.07.2022 06:00

«Clinicamente morto». Così il vicepresidente del Barcellona Eduard Romeu aveva definito il suo club. Sommerso dai debiti accumulati dalla vecchia gestione, targata Josep Maria Bartomeu. E per questo tecnicamente fallito. O se preferite in bancarotta. Tanto da doversi privare del figlio e monumento Lionel Messi. Già. Eppure, a un anno di distanza, al Camp Nou continuano a sbarcare campioni. Ultimo in ordine di tempo, sua maestà Robert Lewandowski. Ennesimo investimento monstre di un’estate che vede i catalani scatenati sul mercato. Ma come è possibile? Sì, com’è possibile spendere una sessantina di milioni di euro - tra cartellino e bonus - per uno degli attaccanti più forti al mondo, dopo averne messi sul tavolo anche di più per Raphina ed essere pronto a fare un ulteriore sforzo economico per gente come Marcos Alonso, Bernardo Silva e Jules Koundé? Per tacere degli stipendi annui superiori ai 5 milioni di euro garantiti ai neoacquisti Christensen e Kessié. La risposta, conti disastrati e regolamenti alla mano, potrebbe anche essere banale. E cioè che il Barça non è legittimato a comportarsi in questo modo. La realtà, molto più articolata, racconta invece di un equilibrismo contabile al limite. Ma comunque un equilibrio in grado di offrire a mister Xavi una squadra tra le più forti d’Europa. Nel rispetto, fragile, dei parametri.

I ricavi del futuro già sul conto

Primo paradosso: a oggi i citati Christensen e Kessié non sono ancora stati tesserati. Il fair-play finanziario della Liga impone infatti ai club un rapporto del 60% circa tra entrate e uscite generate da monte salari e ammortamenti. Ecco, il dato di partenza in casa Barcellona era negativo, l’unico per altro del massimo campionato spagnolo. E con un disavanzo di 144 milioni di euro, il club non è formalmente autorizzato a concretizzare nuovi ingaggi in rosa. Urca, e quindi? Beh, urge sia tagliare - gli stipendi della rosa sfiorano i 560 milioni annui - sia far crescere gli introiti. La parola magica, pronunciata a mo’ di mantra dal presidente Joan Laporta, è quindi palancas. Tradotto: «Leve economiche». Sono diverse quelle individuate dalla dirigenza catalana, al netto dell’accordo commerciale con Spotify (70 milioni all’anno) e dei soldi ricavati dai matrimoni al Camp Nou. La decisione più importante e al contempo drastica presa dal Barcellona è stata quella di ipotecare le entrate del futuro. Sì, cedendo a Sixth Street il 10% dei ricavi garantiti dalla Liga per i diritti televisivi dei prossimi 25 anni, la società ha incassato 207,5 milioni. Liquidità fondamentale. E soprattutto immediata. «Ma, da un punto di vista tecnico, significa altresì registrare plusvalenze» sottolinea Marco Bellinazzo. Il giornalista de Il Sole 24 Ore, grande esperto di finanza e sport, chiarisce quindi la portata dell’operazione: «Dal punto di vista contabile questi ricavi straordinari contribuiscono a rimettere il club nella posizione di operare sul mercato. Anche per i rigidissimi vincoli del fair-play finanziario spagnolo».

600 milioni in due mosse

Bene. Ma non è ancora sufficiente. Di qui le altre strade da battere, con il club sostanzialmente di fronte a un bivio. Da un lato è stata vagliata la possibilità di vendere il 49,9% delle quote del «Barça Licensing & Merchandise» (BLM), la società che gestisce il marketing e le licenze del brand blaugrana. Il tutto per altri potenziali 300 milioni. Dall’altro - e per non rinunciare alla creatura BLM - ripetere l’operazione legata ai diritti tv. Come? Mettendo in vendita un ulteriore pacchetto del 15% al prezzo di 400 milioni. In totale, dunque, 600 milioni freschi sul conto.

Paradosso numero due: questi soldi rischiano di non bastare per convincere la Liga a sbloccare il dossier «trasferimenti in entrata». Il saldo tra deficit di 144 milioni, monte salari e nuove entrate risulterebbe ancora in negativo. Imponendo al club altre scelte dolorose.E doverose. Come la cessione - quasi ultimata - del gioiellino Frenkie De Jong al Manchester United, certo. Facendo leva sugli aiuti economici post pandemia, proposti ai club dalla la stessa organizzazione guidata da Javier Tebas, il Barcellona dovrebbe tuttavia trovare l’ultimo grimaldello necessario al suo mercato. A fronte di determinati risparmi , alle società vengono sostanzialmente concessi margini di manovra per investire nella modifica del parco giocatori.

Marco Bellinazzo, giornalista de Il Sole 24 Ore
Marco Bellinazzo, giornalista de Il Sole 24 Ore
Grazie alla partnership con Spotify, i blaugrana hanno consolidato lo status di club planetario

Too big to fail

«Per alcuni il Barcellona ha avviato una politica finanziaria molto rischiosa» osserva a consuntivo Bellinazzo. «Io preferisco parlare di operazioni coraggiose e innovative. Finora, per esempio, la cessione di parte delle entrate prospettate dai diritti tv era stata operata dalle leghe - Liga e Ligue 1 - non dai club. Catalani e Real hanno invece preferito muoversi autonomamente. Incassando di più. E di fatto scommettendo sul valore degli stessi diritti, che tra dieci anni si spera maggiorato e più redditizio rispetto agli accordi attuali». Una proiezione obiettiva o una speculazione pericolosa? «In realtà - indica Bellinazzo - si confida nella capacità del club di tornare a correre verso il miliardo di ricavi. Barriera che senza la pandemia i catalani avrebbero infranto per primi in Europa. Il rinnovamento di tutte le strutture, stadio in primis, dovrebbe contribuire a spingere il Barça verso l’obiettivo. D’altronde la partnership con Spotify, prima nel suo genere, ne consolida lo status di club planetario. Di più: questa sponsorizzazione segna un ulteriore passaggio verso quella che oramai è l’integrazione, per non dire identificazione, tra sport e intrattenimento. Nel caso del Barcellona, ma non solo, si sta creando un ecosistema variegato che vede altre apparati industriali veicolare strategie commerciali attraverso i top brand calcistici europei. Alla base di queste dinamiche vi sono i cosiddetti big data: centinaia di milioni di tifosi-follower che in un certo senso rappresentano una sorta di assicurazione sulla vita». Come per le banche too big to fail.

Il piano mai archiviato della Superlega

La competitività del presente, insomma, sta in qualche modo esigendo di compromettere - o quantomeno intaccare fortemente - il futuro del Barcellona. Ma in fondo è proprio all’evoluzione del sistema calcio, ai maggiori profitti del domani quindi, che sembrerebbe aggrapparsi il club catalano. Protagonista insieme a Real e Juventus di uno dei procedimenti legali più rilevanti nella storia dello sport. Proprio settimana scorsa, in Lussemburgo, la Corte di giustizia europea ha concluso un’udienza potenzialmente decisiva sul contenzioso tra UEFA, FIFA e Superlega. Non tanto per tastare nuovamente il polso al progetto di riforma del calcio europeo, no. Ma per determinare l’eventuale parzialità di Nyon. Nell’atto di deferimento del tribunale di Madrid alla Corte, l’oggetto del contendere è descritto così: «Impedendo l’organizzazione della Superlega europea, le ricorrenti (UEFA e FIFA) hanno messo in atto pratiche concordate e hanno abusato della loro posizione dominante nel mercato dell’organizzazione di competizioni calcistiche internazionali per club in Europa e nel mercato della commercializzazione dei diritti associati a tali competizioni». Bisognerà aspettare la fine dell’anno, o l’inizio del 2023, per la sentenza della Grande Camera sul caso registrato come C-333/21 European Superleague Company. L’ultima parola, poi, spetterà al tribunale spagnolo. Nel frattempo il Barcellona avrà probabilmente piazzato altri colpi di mercato, ma anche chiesto la riduzione dello stipendio a qualche elemento in rosa. 

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