«Non scambierei mai il Lauberhorn per un argento olimpico»

Ha vinto la mitica discesa del Lauberhorn nel 1981, quando tutti aspettavano Peter Müller. Tra i sogni di Toni Bürgler, papà dell’attaccante dell’Ambrì Dario, c’era però anche una casa in Ticino. «E a Cureggia ho trovato un piccolo paradiso». A ridosso delle gare di Wengen, siamo andati a trovarlo.
«In realtà ho sempre desiderato un rustico. Ma per più ragioni non è stato possibile» spiega l’ex sciatore svizzero, accogliendoci nel suo domicilio al limitare del nucleo. I boschi sovrastanti sono imbiancati. Usciamo subito in giardino, dove la sguardo - seppur mascherato dalla nebbia - si tuffa nel vuoto e verso un panorama mozzafiato. Quasi ci trovassimo all’altezza dell’Hundschopf. Il cane di Toni Bürgler, al proposito, fa avanti e indietro dalla porta finestra. «Si chiama Largo, ed è originario della Martinica. Lo abbiamo preso da un rifugio di trovatelli, quasi 13 anni fa, quando vivevamo in Francia». Sì, perché nel 2008 il 66.enne di Rickenbach si è trasferito a nord di Parigi per gestire una scuderia di purosangue, insieme alla sua compagna. «A Cureggia siamo invece finiti nell’estate del 2021. Per colpa... di Dario» indica papà Toni. «All’epoca giocava per l’HC Lugano e viveva a Pregassona. Nella sua abitazione, tuttavia, il proprietario dell’immobile aveva previsto di sistemare il proprio di figlio». Eccola, dunque, l’opportunità d’installarsi a sud delle Alpi. «In una prima fase, a occupare la casa acquistata avrebbe dovuto per l’appunto essere Dario». Quando Toni ha iniziato a sondare il terreno, infatti, le trattative per rinnovare in bianconero erano in corso. Non se ne fece nulla. E, così, a entrare in scena fu l’Ambrì, consegnando una maglia diversa al numero 87 e - di riflesso - le chiavi della nuova dimora a suo padre.
Un muratore sulla neve
«Qui è bellissimo e ho tanto da fare» afferma Toni, mostrandoci il grande prato situato al di sotto della struttura e i diversi interventi di miglioria apportati alla stessa. «Prima di abbracciare la carriera di sciatore - osserva Bürgler - completai la formazione di muratore. Per altro risultando il miglior apprendista del canton Svitto, con una media del 5,2». Da allora, aggiunge, «la passione per i lavori manuali non mi ha mai abbandonato». E i pregevoli ritocchi sia agli interni, sia agli esterni, sono lì a dimostrarlo. «Dirò di più: senza la scuola per diventare muratore non avrei mai gareggiato in Coppa del Mondo. Ai quei tempi la preparazione fisica non godeva dell’attenzione e di strumenti particolari. Trasportare blocchi di cemento da 25-50 chili sui cantieri, a 16 anni, ha quindi costituito la mia palestra». No, il percorso che ha condotto Bürgler al professionismo non è stato convenzionale. «Sono un prodotto degli sci club, non dei quadri della federazione nei quali confluivano i migliori talenti. Per i giovani sciatori di allora, ai quali non si voleva impedire di competere, venne comunque creato uno speciale gruppo di allenamento. Vi faceva parte pure Pauli Gut, il papà di Lara».


A proiettare Bürgler sul palcoscenico principale del Circo Bianco contribuì poi il ritiro - nel giro di un paio d’anni - di tre grandi interpreti dello sci rossocrociato: Bernhard Russi, Walter Tresch e René Berthod. «Tolto uno slalom e un paio di giganti, dal 1978 al 1984 ho corso unicamente in discesa» rileva Toni. Per poi svelare un aneddoto: «A dirla tutta presi parte anche al primo superG nella storia della CdM. Era il 1982, in Val d’Isère, e in quell’occasione avvenne pure l’esordio di mio fratello Thomas. Io finii a gambe all’aria dopo poche porte, lui arrivò quinto. Solo che sulle liste con le graduatorie venne stampato T. Bürgler. E, come successe in altre circostanze, i premi previsti da contratto furono versati al sottoscritto».
Peter Müller e la «S» finale
Quella dei Bürgler, lo avrete capito, è una famiglia di sportivi. La figlia del nostro interlocutore, sorella di Dario, si è distinta nella ginnastica artistica a livello giovanile. «Franz Heinzer è invece mio cugino» nota Toni, menzionando uno dei più grandi discesisti elvetici. «La mia carriera, al contrario, è stata segnata da continui alti e bassi. Quando decisi di smettere, a soli 26 anni, mi trovavo proprio con Franz. Condividevamo la stessa camera a Wengen e, la sera prima della gara, ricordo che gli dissi: “Se domani non arrivo nei primi 15 non mi presento nemmeno a Kitzbühel”. Conclusi diciassettesimo od oltre e di lì a poche settimane salutai le competizioni per dedicarmi a ciò che mi appassionava di più. La costruzione della mia casa a Brunnen, per esempio».
E pensare che appena tre anni prima Toni Bürgler aveva toccato il cielo con un dito. Il 24 gennaio del 1981, al termine del Lauberhorn, a salire sul gradino più alto del podio era stato proprio lui. I tifosi e l’opinione pubblica attendevano tuttavia un altro vincitore svizzero. «Il grande favorito e specialista - conferma Bürgler - era Peter Müller. Prima della “S” finale, oltretutto, mi precedeva di 7 centesimi». Ma come accaduto in tante occasioni, la doppia curva conclusiva sovvertì pronostici ed equilibri. «Entrambi, durante l’allenamento della vigilia, avevamo perso diverso terreno nel passaggio in questione. L’analisi cronometrica e video suggerirono dunque la necessità di adottare una linea più diretta». Già, peccato che Müller esagerò, uscendo di pista in modo anche violento. «Il fatto che Peter fosse sceso con il pettorale numero 1 e io con il 3 rappresentò la mia fortuna» spiega Toni: «Via radio, poco prima di scattare dal cancelletto, feci in tempo ad apprendere della sua caduta. E così capii che per la “S” finale sarebbe servito un compromesso. Insomma, Müller mi salvò. Salvò la mia vittoria». E che vittoria. «Da sciatore svizzero, se dovessi scegliere tra la discesa del Lauberhorn, la medaglia d’oro al Mondiale e quella alle Olimpiadi, opterei per le ultime due. Ma se si trattasse di argenti, allora no, non avrei dubbi a puntare su Wengen». La scintilla scoccò nel 1970. «Quando dei giovanissimi Bernhard Russi e Walter Tresch, partiti con pettorali tra il 73 e l’85, chiusero nella top 20. Io ero un bambino, loro i miei idoli, e da quel momento, a ogni allenamento estivo in cui si trattava di soffrire, il Lauberhorn ha rappresentato uno appiglio. Sì, mi dicevo che un giorno l’avrei vinto».
Un autografo indigesto
Accadde 11 anni più tardi. E, al netto dei destini opposti, Bürgler e Müller sono rimasti amici e in contatto. «Anche se a Peter la sconfitta non è mai andata giù veramente» afferma Bürgler sorridendo. «Rammento un episodio curioso. Tempo dopo, Peter venne a trovarmi a Rickenbach. Io non c’ero, ma era presente mio padre. All’epoca era un viavai di ragazzini che suonavano al campanello per avere un autografo. E in quell’occasione, in mia assenza, papà invitò Müller a portargli alcune delle sue cartoline da distribuire ai giovani tifosi. Il caso volle che a essere ritratto sulla fotografia firmata fosse il salto dell’Hundschopf durante la gara del 1981. E a riprova della difficoltà a digerirne l’esito, Müller esclamò: “Sappi che fino a quel momento il miglior tempo era il mio!”». A trionfare per la seconda e ultima volta in carriera, dopo la discesa vinta nel 1979 a Crans-Montana, fu però Toni Bürgler. Un successo davanti all’austriaco Harti Weirather e al canadese Steve Podborski. Con tanto di 1’27’’ rifilato pure a un certo Franz Klammer, infine settimo. «Uno dei più grandi» sottolinea Bürgler: «Anche la sua carriera fu segnata da momenti molto difficili. E ricordo con piacere che quando nel 1981 tornò a vincere una gara a Val d’Isère, a tre anni di distanza dall’ultima, io chiusi al terzo posto e Peter Müller al secondo».

«Lo sci? Come il militare»
Mentre il nastro della storia viene riavvolto, gli occhi di Toni Bürgler brillano. «Serbo ricordi magnifici del Circo bianco. Lo paragonerei al servizio militare, del quale alla fine si fa tesoro dei bei momenti, scordando le tante inutilità. L’estate scorsa, insieme a un vecchio compagno, abbiamo deciso di organizzare una rimpatriata con gli atleti, gli allenatori e gli skiman svizzeri attivi prima del 2000. Eravamo in tanti e la giornata era splendida». E fra un brindisi e l’altro, c’è da scommetterci, dev’essere emerso il nome di Marco Odermatt. Il nuovo fenomeno dello sci. «Io lo accosto a Roger Federer» evidenzia Toni Bürgler: «La Svizzera dev’essere fiera di poter contare su sportivi di questa caratura e, al contempo, spontaneità. Ed è ancora più incredibile che Odermatt abbia un tale successo grazie agli sci di una piccola azienda svizzera». Nella disciplina regina, facciamo notare, Bürgler può tuttavia considerarsi più vincente di «Odi». «Ma è una supremazia che è destinata a crollare in fretta» replica Toni. «Vero, le enormi qualità tecniche di Odermatt incidono forse meno in discesa, dove le doti di scorrimento restano cruciali». Ripensando alle libere disputate in carriera, ad ogni modo, Bürgler evidenzia come oggi «i passaggi tecnici siano oramai all’ordine del giorno. Lo stesso Lauberhorn, e mi fa male dirlo, si è snaturato. Penso in particolare al salto finale, disinnescato dopo la tragica morte di Gernot Reinstadler. E ciò nonostante il salto non c’entrasse».


L’appunto di Arno Del Curto
Il Lauberhorn, per Toni Bürgler, resta ad ogni modo un appuntamento fisso alla tv. Così come Kitzbühel. «Naturalmente guardo anche tutti gli highlight delle partite di Dario. I match dal vivo? In questa stagione mi sono recato alla Gottardo Arena solo in occasione del debutto stagionale, contro il Rapperswil. Diciamo che fatico a godermi lo spettacolo senza farmi prendere dal nervosismo». Toni è il primo tifoso del figlio. «In passato ero anche molto critico, difficilmente non esprimevo la mia opinione sulle sue prestazioni. Oggi, va da sé, non serve più. Ha il suo stile, i suoi punti di forza e le sue fragilità». Anche se Arno Del Curto, per sette anni allenatore di Bürgler a Davos, avrebbe preferito un po’ più di sale. Sentite Toni: «Una volta Arno venne da me e disse: “Dario ha preso troppo da sua madre e troppo poco da te”. La mia ex moglie, in effetti, era una persona molto calma». Con Del Curto, in ogni caso, le cose hanno funzionato alla grande, traducendosi in due titoli svizzeri. «L’aspetto mentale, con Dario, ha sempre giocato un ruolo importante. La fiducia del coach, per mio figlio, è fondamentale. Con Arno, come pure con Doug Shedden a Lugano e ora Luca Cereda ad Ambrì, non è mai venuta meno. Harold Kreis, a Zugo, è invece stato un pessimo allenatore sotto questo punto di vista». In una recente intervista al Corriere del Ticino, l’attaccante biancoblù aveva ammesso di essere contento di non aver mai visto sciare dal vivo papà. «Se lo avessi visto in azione, magari oggi sarei uno sciatore. E io preferisco l’hockey» le parole di Dario. «Meglio così, davvero, perché sugli sci mio figlio non ci sapeva proprio fare» conclude papà Toni ridendo.