L'intervista

«Difficile sostituire ora Joe Biden nella corsa alla Casa Bianca»

Nadia Urbinati, docente di Teoria politica alla Columbia University, analizza la situazione attuale nella campagna per le presidenziali USA
Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. ©Susan Walsh
Dario Campione
11.07.2024 23:15

Nadia Urbinati insegna Teoria politica alla Columbia University di New York. È stata docente anche alla Scuola Sant'Anna di Pisa, alla Bocconi e a SciencesPo a Parigi. Tra i maggiori studiosi del liberalismo e dei fondamenti della democrazia rappresentativa, ha pubblicato negli ultimi anni monografie sul populismo, sul conflitto sociale e politico e sulla libertà.

Professoressa Urbinati, ogni giorno dagli Stati Uniti giungono voci su una possibile uscita di Joe Biden dalla corsa alla Casa Bianca. Che cosa sta realmente succedendo? È un’ipotesi realistica che il presidente rinunci alla candidatura?
«La situazione è delicata e complicata. Biden è, di fatto, il candidato dei democratici. La decisione è stata presa nel corso delle primarie, per sostituirlo servirebbe un intervento, inedito, di natura eccezionale. Il fatto poi che sia una persona anziana rende tutto più difficile».

Sarebbe una manovra politicamente scorretta?
«Sì, politicamente e anche moralmente. Non è semplice dire al presidente di abbandonare perché è vecchio. I democratici stanno comunque facendo moral suasion, tentano di fare in modo che sia lui a decidere senza che nessuno lo costringa. Ma non sarà facile. Biden ritiene di essere indispensabile, insostituibile. Continua a dire ai suoi “se mi fate fuori adesso, perderemo”».

Anche lei pensa che Biden sia indispensabile per battere Trump, o sarebbe meglio qualcun altro?
«Ormai, siamo quasi in prossimità della convention democratica di Chicago. Cambiare significherebbe riconoscere che per un anno e mezzo, da quando cioè si è puntato nuovamente su Biden, si è fatto un errore di valutazione sulle condizioni del presidente. Significa ammettere un errore di non poco conto. D’altra parte, tutto questo può essere letto sotto un altro aspetto. Oggi Trump fa la sua campagna in relazione a Biden, e alle condizioni di quest’ultimo. Se ci fosse un altro candidato, Trump non avrebbe più alcuna strategia, potrebbe trovarsi in una situazione di maggiore difficoltà».

Kamala Harris? Non ha mostrato le sue potenziali qualità, di lei si ha un’impressione opaca

Secondo lei, la vicepresidente Kamala Harris potrebbe essere una buona candidata?
«In questi quattro anni non ha mostrato le sue potenziali qualità, di lei si ha un’impressione opaca. Gli americani, anche tra i democratici, pensano che sia molto più a destra rispetto a Biden soprattutto nella politica interna; la identificano come una donna “legge e ordine”. Non ha mai tentato di avere una personalità autonoma e costruirsela adesso è un po’ complicato. Resta il fatto che a molti, per battere Trump, appare necessario che Biden faccia un passo indietro».

Ma concretamente, i democratici avrebbero il tempo di avanzare una candidatura alternativa? C’è un candidato di riserva?
«Ce ne sono alcuni, poco conosciuti in Europa ma noti negli USA. Penso al governatore della California, Gavin Christopher Newsom, o alla governatrice del Michigan, Gretchen Whitmer. Ma il punto è un altro: è tardi per lanciarli. Più avanti si va, più è difficile costruirne il profilo. Il problema è serissimo. Anche perché, lo ripeto, Biden pensa di dover portare lui il partito democratico alla vittoria».

Dopo aver chiesto per settimane a Biden di ritirarsi, oggi il New York Times ha pubblicato un ritratto di Trump durissimo. L’ex presidente è stato definito «inadatto a guidare il Paese e pericoloso nelle parole, degli atti e nelle azioni». Che cosa significa?
«Succede quanto abbiamo già visto in Francia. L’unico obiettivo è battere il nemico. Quindi, basta chiedersi che cosa succederà dopo con Biden: sarà sempre meglio che avere Trump alla Casa Bianca. Tra due anziani, prendiamoci quello meno negativo. Avrà certo problemi, che possono essere tuttavia risolti al limite anche con una sostituzione. È quanto accaduto in Francia con il Nuovo Fronte Popolare. Peraltro, nel caso degli Stati Uniti sarebbe addirittura più facile perché si sceglie tra due persone e non c’è da costruire una un’Assemblea nazionale o un Parlamento».

Ma l’appello del New York Times, quanto può essere davvero efficace?
«Difficile dirlo. C’è una parte di elettorato, quella più razionale e machiavellica, che non guarda in faccia al problema Biden e vuole soltanto bloccare Trump. Sono coloro i quali hanno votato sempre democratico e continueranno a farlo. Sarà invece molto più difficile convincere gli altri, anche alcune minoranze che dopo essere state “incluse” nella società dimostrano di essere più rigide verso i nuovi immigrati e di avere una preferenza per Trump. Ci sono perciò molti elementi da tenere in considerazione. Certamente, dal mio punto di vista Trump sarebbe un rischio soprattutto per la politica internazionale, per la NATO, insomma per tante cose che vanno al di là degli Stati Uniti».

Difficile dire quanto possa essere efficace l'appello del New York Times. Certamente, Trump sarebbe un rischio soprattutto per la politica internazionale, per la NATO, insomma per tante cose che vanno al di là degli Stati Uniti

Da studiosa della politica, come giudica questa situazione?
«Il problema è cresciuto nel lungo periodo, quando le classi dirigenti e le forze migliori del Paese hanno iniziato ad abbandonare i partiti. Laureati, esperti, professionisti hanno cercato successo altrove, non più in politica. Inoltre, pesano enormemente la radicalizzazione e la polarizzazione della società, che non aiutano mai a scegliere candidati moderati e competenti, ma impongono piuttosto candidati estremi. Anche Biden, a suo modo, è estremo quando utilizza l’argomento dell’imprescindibilità di sé rispetto a Trump».

Ma come è potuto accadere? Una volta gli Stati Uniti erano un Paese in cui chi perdeva riconosceva senza alcun problema la vittoria del contendente.
«Tutto nasce con l’implosione del partito repubblicano dopo la vittoria di Barack Obama. In quel momento nasce il cosiddetto Tea Party, la costola interna che contesta la legittimità del presidente. Da allora il sistema si è incrinato. Contagiando, peraltro, altri Paesi».

Quanto hanno pesato, in questo cambiamento, l’ipermediatizzazione della società o l’esplosione della Rete? Lo sfilacciamento sociale, l’iper-individualismo, non sono anch’essi fattori di questa crisi?
«C’è anche questo. Ma ci sono, soprattutto, la demolizione dei partiti politici e la grande de-industrializzazione. Nel Midwest, per esempio, la società era molto intermediata: c’erano le Chiese, le associazioni di mutuo soccorso, i partiti, sindacati fortissimi. Dal Montana all’Illinois, giù fino al Texas, ormai c’è un deserto di associazionismo. La società è diventata un collage, una moltitudine di individui. I quali si uniscono intorno alla figura di un candidato, non più di un’idea o di un valore».

Sono venuti meno i corpi intermedi ed è prevalsa l’identificazione con il leader carismatico.
«Esatto, ma non solo. Il Premio Nobel per l’Economia Angus Deaton ha analizzato queste società disintermediate e post-industriali e ne ha spiegato il cambiamento che ha portato a fenomeni come la solitudine sociale, l’abuso degli oppiacei e degli antidolorifici, il tasso maggiore di suicidi. Solitudine sociale, dice Deaton, vuol dire depotenziamento del senso del sé, pensare che la cittadinanza non conta niente, che nessuno ti ascolti. Un fenomeno, questo sì, davvero molto preoccupante».

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