Abramovich, la Russia e gli avvelenamenti
C’è chi, leggendo la notizia, ha scosso il capo ed esclamato ironicamente: «Strano, di mezzo c’è ancora la Russia». Roman Abramovich e due membri della delegazione ucraina, a inizio marzo, hanno avuto sintomi compatibili con un avvelenamento. Ahia. L’agenzia di giornalismo investigativo Bellingcat, addirittura, ha stabilito che i tre avevano consumato solo cioccolato e acqua e, ancora, che quanto successo potrebbe rientrare alla voce «avvertimento». Un attacco chimico, sì. Ma in dosi modeste. Fonti non ufficiali statunitensi e ucraine, nel frattempo, hanno sollevato sospetti circa la veridicità del presunto avvelenamento.
In principio fu Lenin
Siamo di fronte, una volta di più, a un mistero russo. Di cui, forse, un giorno sapremo qualcosa. La trama, va da sé, assomiglia a quella di un vecchio film di spionaggio. Per tacere della vittima, l’oligarca degli oligarchi, quasi ex proprietario del Chelsea nonché (un tempo) molto vicino al Cremlino e soprattutto a Vladimir Putin. Che sia vera o meno, la vicenda si riallaccia al forte, fortissimo rapporto fra la Russia e gli avvelenamenti.
Una storia, come ribadisce il Guardian, che affonda le sue radici nell’Unione Sovietica. Nel 1921, a Mosca, Vladimir Lenin istituì un vero e proprio laboratorio di avvelenamento. Si chiamava Lab X.
Le vecchie abitudini, con il passare degli anni, non sarebbero cambiate. Tant’è che l’attuale regime è accusato di essere dietro a parecchi avvelenamenti. Guarda caso, tutti legati a chi, per vari motivi, si è opposto alla narrazione ufficiale e, in generale, al Cremlino.
La paletta di opzioni, parliamo di come questi avvelenamenti vengono organizzati, è ampia. E comprende perfino l’uso dell’agente nervino novichok.
Il veleno nelle mutande
Nato dalle ceneri del vecchio KGB, il Servizio federale per la sicurezza della Federazione russa (FSB) ad esempio è accusato di aver tentato di uccidere Alexei Navalny, il leader dell’opposizione politica, proprio attraverso l’uso di novichok.
Incredibilmente, fu proprio Navalny una volta ristabilitosi a strappare la verità a un agente dell’FSB. Saltò fuori che, in quell’occasione, il veleno era stato applicato nelle mutande. Ma l’effetto fu troppo lento rispetto ai piani, che prevedevano la morte dell’oppositore prima del volo.
Il profumo
Anni prima, invece, due agenti dell’intelligence del GRU, il Direttorato principale per l'informazione, trasportarono del novichok all’interno di una boccetta di profumo. Arrivati a Salisbury, spruzzarono il contenuto sulla maniglia della porta di casa di Sergei Skripal. Un ex collega, finito tuttavia dalla parte dei cattivi con l’accusa di alto tradimento. Era il 2018, Skripal e sua figlia Yulia, in visita, vennero trovati su una panchina del centro città, privi di conoscenza e con la bava alla bocca. Fortuna volle che la dose non proprio massiccia e un trattamento tempestivo evitarono, a entrambi, la morte.
La boccetta di profumo fu gettata in un cestino. Trovata, per caso, da un passante, finì sui polsi di Dawn Sturgess. Un regalo innocente da parte del partner, già. La donna si ammalò in quindici minuti appena e morì pochi giorni dopo.
L'ombrello
L’elenco, dicevamo, è lungo. Tanto quanto la storia dell’Unione Sovietica e della Federazione Russa. Prima di Skripal, l’Inghilterra fu il teatro della morte di Alexander Litvinenko, avvelenato con tè al polonio, uno smacco (voluto) alle abitudini dei britannici. La sua lenta e terribile morte avvenne nel 2006.
Scavando nella storia, la realtà sembra mischiarsi alla finzione cinematografica. Ma è, appunto, realtà. Lo scrittore e dissidente bulgaro Georgi Markov, leggiamo, fu avvelenato nel 1978 tramite la punta avvelenata di un ombrello. Il KGB sovietico fu accusato di aver contribuito all’operazione, divenuta celebre con il nome di Umbrella Murder. Citiamo Wikipedia: Markov stava attraversando il ponte di Waterloo sul Tamigi e raggiunse la fermata dell’autobus per andare al lavoro alla BBC; lì sentì un leggero dolore acuto, come un morso o una puntura di insetto, sulla parte posteriore della coscia destra. Si guardò alle spalle e vide un uomo che sollevava un ombrello da terra. L’uomo attraversò in fretta l’altro lato della strada e salì su un taxi che poi si allontanò. E ancora: quando arrivò al lavoro presso gli uffici della BBC, Markov notò che si era formato un piccolo brufolo rosso sul sito della puntura che aveva sentito prima e che il dolore non si era ridotto o cessato. Raccontò ad almeno uno dei suoi colleghi della BBC di questo incidente. Quella sera gli venne la febbre e fu ricoverato all’ospedale St James di Balham, dove morì quattro giorni dopo.
Uccidere, però, non è sempre l’obiettivo di Mosca. Lo dimostrerebbe l’avvertimento dato ad Abramovich, mentre il deputato laburista britannico Chris Bryant recentemente ha rivelato che, durante un viaggio ufficiale in Russia nel 2009, si ammalò gravemente a causa di un’intossicazione alimentare. Apprese in seguito che l’FSB era solito somministrare irritanti ai visitatori considerati difficili e ostili.
Il ruolo di Roman
La Russia avrebbe agito (quasi) indisturbata anche in Ucraina. Viktor Yushchenko, all’epoca cinquantenne, voleva diventare presidente del Paese: si ammalò durante la campagna elettorale. Aveva appena annunciato la sfida al candidato filo-russo Viktor Yanukovich.
Fu stabilito che a far ammalare Yushchenko fu una diossina, la Russia venne accusata di avere orchestrato il tutto ma nessuno fu in grado di dimostrare un coinvolgimento di Mosca. Yushchenko, comunque, si ristabilì e sconfisse l’avversario.
Abramovich, venendo al presente, al di là del presunto avvelenamento sta giocando una partita importante e, inutile ribadirlo, delicata. «Figlio» di Eltsin, in questi anni ha saputo evitare la fine di molti oligarchi della prima ora e conservare le sue ricchezze. Accettando le pressioni di Putin, lavorando affinché la rabbia del presidente si concentrasse altrove. A tutto, evidentemente, c’è un limite.
Abramovich, oggi, ha fatto capire che cosa pensa davvero della guerra. Di più, vuole offrire una soluzione. L’Ucraina, del resto, la conosce bene. Sua nonna, nata e cresciuta a Kiev, fuggì dalla capitale nel 1941 mentre le truppe naziste avanzavano nel Paese. Si salvò dal massacro di Babyn Yar, un luogo tornato d’attualità a causa dei bombardamenti russi.