«Così Israele ha permesso la nascita di Hamas»
Medio Oriente. Dal 7 ottobre, dai sanguinosi attacchi di Hamas ai kibbutz israeliani, il tema è ospite di tutti i media. Israele, Gaza, Cisgiordania. Netanyahu, IDF, Hamas, Fatah e Abu Mazen. E poi Libano, Hezbollah, gli ayatollah iraniani. Nomi di luoghi, gruppi, personaggi, si rincorrono. Ma tutti, nessuno escluso, esistevano ben prima del 7 ottobre: abitavano una regione al centro, da decenni, di tensioni e scontri. Qual è la storia di Israele e della Palestina? Come si è arrivati a questa fatidica data?
Per rispondere a simili domande in modo accurato, il Corriere del Ticino presenta la rubrica e l'omonimo podcast La Terra complessa. Con l'aiuto dell'esperto di Medio Oriente Benoît Challand, faremo un salto nel passato, ricostruendo in modo fattuale quanto avvenuto nel Levante dalla fine del XIX secolo a oggi.
Articoli e contenuti audio, pubblicati a cadenza settimanale, sono disponibili a questo link. Buona lettura e buon ascolto!
Puntata 4 – Dall'esilio dell'OLP alla prima Intifada
Eccoci alla puntata quattro del nostro viaggio nella Terra
complessa. Avevamo concluso lo scorso episodio parlando della guerra dei
sei giorni (1967) e dell’evoluzione dell’Organizzazione per la liberazione della
Palestina (OLP), che con l’ascesa di Yasser Arafat abbandona le influenze
egiziane e diviene una vera organizzazione palestinese. Ripartiamo proprio da
qui.
«È importante capire, nella transizione fra puntata 3 e puntata 4 di questa
rubrica, come e perché a volte si parla del conflitto “arabo-israeliano” e a
tratti, invece, si parla del conflitto “palestinese-israeliano”. Come detto
nelle puntate 2 e 3, la guerra attorno alla creazione dello Stato di Israele
era fatta, inizialmente, da Paesi arabi. Dopo la guerra dei sei giorni, l’OLP
diventa il vero rappresentante palestinese ed è da questo momento che nel
conflitto arabo-israeliano si sviluppa davvero quello palestinese-israeliano. L’OLP
voleva costruire uno Stato palestinese democratico con due popoli in
coesistenza. Ma questo è reso impossibile dall’esilio a cui è costretto l’OLP. Facciamo un passo indietro: le guerre e la lotta armata sono elementi identitari per qualsiasi Paese, anche in Europa e nella stessa Svizzera. Durante
la Seconda guerra mondiale, pur senza subire un’invasione, la Svizzera ha
sviluppato elementi identitari forti, un senso di unità nazionale. Per i
palestinesi e per Israele funziona allo stesso modo: la violenza ha una
dimensione simbolica. Per i palestinesi, in particolare, la lotta per l’identità
nazionale assume dei contorni rivoluzionari. Tanto che il motto di al-Asifah,
il braccio armato di Fatah di cui abbiamo parlato nella scorsa puntata, è “Rivoluzione
fino alla vittoria”. Per i palestinesi che si trovano cacciati dalle terre,
prendere le armi è un modo di sopravvivere, qualcosa di esistenziale. È in questo momento, negli anni dopo la guerra dei sei
giorni, che si sviluppano i gruppi armati palestinesi. Ma per i fedayyin di Fatah
o dell’OLP è difficile operare dai territori occupati. Con così tanti soldati israeliani
impiegati sul suolo (Cisgiordania, Gerusalemme e Gaza) organizzare una resistenza militare è impossibile. Le
incursioni vengono effettuate, allora, dalla Giordania, dal Libano, dall'Egitto. Ma, a poco a poco, Israele riesce a respingere i
fedayyin e la resistenza palestinese sempre più lontani dai territori occupati.
Prima in Giordania, poi in Libano».
Che cosa avviene in questi anni di esilio?
«Vale la pena ricordare due episodi: il Settembre nero del 1970 e l'invasione del Libano del 1982. Alla fine degli anni Sessanta, l’OLP si ritrova cacciato
dai territori palestinesi e cerca rifugio vicino allo Stato d'Israele, in
Giordania. Il problema è che per la monarchia hashemita – piccolo Stato creato
dai mandati – la presenza massiccia di profughi palestinesi rappresenta un
rischio alla sopravvivenza stessa del Paese. Nel 1968, infatti, l’OLP è in grado di vincere una battaglia contro Israele a Karame, località giordana. “Karame” in arabo
significa anche “dignità”: immaginiamo la centralità, nella memoria collettiva
palestinese, di questa vittoria. Israele risponde inviando più truppe nei
territori giordani e, per questo, la monarchia comincia a sentirsi minacciata dalla
crisi palestinese, temendo che l’OLP crei uno Stato dentro lo Stato giordano. Di
qui la guerra civile scoppiata in Giordania, il “Settembre nero”, a seguito
della quale l’OLP viene nuovamente cacciato, questa volta in Libano. Ma “Settembre
nero” è anche il nome dell’organizzazione terroristica palestinese che ha
lanciato attacchi contro atleti israeliani durante le Olimpiadi di Monaco nel
settembre ’72 e dirottamenti di aerei (anche svizzeri!). Sono gli anni della
guerra in Vietnam e dei movimenti radicali di sinistra, anni di subbuglio e
guerriglia internazionale. Ciò che avviene nella regione palestinese, insomma,
è specchio della realtà mondiale del momento».
Parlava di un secondo episodio importante per l’OLP all’estero,
durante la guerra in Libano dell’82. Che cosa accade in questa fase?
«In questo momento, il Libano si trova in una fase di guerra civile. Nella
puntata 2 avevamo anticipato come i francesi avessero garantito privilegi alla
comunità cristiana maronita, mettendo da parte sunniti e sciiti. Questo crea motivi
di conflittualità. L’arrivo dell’OLP non fa altro che aggiungere pressione sul
territorio. Dalla fine degli anni Settanta, l’Organizzazione per la liberazione
della Palestina organizza attacchi dai territori libanesi allo Stato
israeliano. Per questo, Israele decide nel 1981 di invadere il sud del Libano. Nel settembre 1982, l'assassinio del presidente cristiano Bashir Gemayel crea un desiderio di
vendetta nel suo schieramento, le Falangi Libanesi, contro i gruppi che si
pensano essere dietro l’attentato. Chi è il capro espiatorio, il gruppo
presentato come la minaccia per l’ordine interno? I palestinesi. Per questo, a
pochi giorni dall’uccisione di Gemayel, si verifica l’orrendo massacro di Sabra
e Shatila. Le truppe israeliane, che allora controllavano la zona a sud di
Beirut, permettono alle Falangi Libanesi di penetrare nei campi profughi
palestinesi di Sabra e Shatila, dove commettono un eccidio. Almeno mille i
palestinesi ammazzati nel corso di tre giorni. Pierre Pascal Rossi, giornalista
romando, si trovava lì e fu uno dei primi reporter a narrare l’orrenda scoperta
dei cadaveri. L’evento creò un’ondata di repulsione internazionale. La responsabilità
di Israele – non nel massacro stesso, ma nel permetterlo – era chiara sin dall’inizio.
E ciò provoca ondate di protesta all’interno dello stesso Stato israeliano, con
manifestazioni che chiedono le dimissioni del ministro della Difesa Ariel
Sharon. Una commissione d’inchiesta parlamentare, un anno dopo,
confermerà la corresponsabilità di Israele nel massacro. In questo contesto di guerra civile libanese, non bisogna
dimenticare il fronte sciita. Sino agli anni Ottanta era costruito attorno al
movimento dei Diseredati – o “Amal” – fondato dall’imam Musa al-Sadr. In Iran,
intanto, si era appena conclusa la rivoluzione, che aveva visto la vittoria del
movimento islamista dell’Ayatollah Khomeini. Khomeini, nel contesto della
guerra civile libanese, voleva sostenere gli sciiti che considerava più vicini
alla propria autorità e per questo, nel 1982, sostenne la nascita di un nuovo
gruppo sciita, Hezbollah, che comincia immediatamente a condurre attacchi
suicidi contro le basi militari statunitensi presenti nella regione. Ma la
presenza israeliana sul territorio (il ritiro dal sud del Paese avvenne solo
nel 2000, ndr) porta Hezbollah a divenire una potenza armata – uno Stato dentro
lo Stato libanese – e a continui scontri alla frontiera nord di Israele,
scontri di cui sentiamo ancora oggi».
L’Iran ha dunque utilizzato Hezbollah come strumento per
una guerra proxy contro Israele?
«Hezbollah è sostenuto ideologicamente e finanziariamente dall’Iran, ma è
radicato nel territorio proprio come il precedente movimento Amal, dunque è
anche un movimento di resistenza nazionale. Va detto che questi gruppi
islamisti, nella stragrande maggioranza dei casi, sono partiti nazionalisti. La
Fratellanza Musulmana in Egitto, Hezbollah in Libano e, più tardi, Hamas in
Palestina. Questo islamismo politico va letto in termini di politica nazionale.
È soltanto negli anni Novanta e Duemila che nasce un islamismo internazionale
di stampo jihadista (al-Qaida, Daesh) che non ha lo scopo di prendere il potere
in un Paese, ma di lottare contro la politica egemonica occidentale. Quindi sì,
l’Iran si scontra con Israele in Libano attraverso Hezbollah, ma per Hezbollah si
tratta soprattutto, visto l’occupazione israeliana, di una lotta nazionale».
Pochi anni dopo, nel contesto della prima Intifada e dall’islamismo
nazionalista di cui parlava, è nato Hamas.
«Esatto. Ma per spiegarlo è necessario fare un passo indietro. Dal momento
della creazione di Israele nel 1948 fino a metà degli anni Settanta, è il
partito laburista a governare con coalizioni varie. La leadership è sempre
ashkenazi, di origini europee insomma. Nel 1977, alle elezioni politiche, la
svolta: il Likud – fondato quattro anni prima da Menachem Begin e sostenuto
dagli ebrei sefarditi e mizrahim – conquista la Knesset, per poi perdere
nuovamente nel 1983. La politica israeliana si fa meno stabile e omogenea e varia
fra posizioni più o meno bellicose (invasione del Libano) e più o meno aperte alla negoziazione (commissione d’inchiesta sul
massacro di Sabra e Shatila) in base a chi si trova
al potere. A essere omogeneo, fra sinistra
e destra israeliana, è il rifiuto di restituire ai palestinesi i territori
occupati. Parlavamo, precedentemente, della risoluzione 242. Della necessità,
secondo il Consiglio di Sicurezza ONU, di ridare “i territori” o “territori”. Ebbene,
fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta movimenti
religiosi come Gush Emunim e lo stesso partito Likud promuovono la creazione di
insediamenti israeliani nei territori occupati, anche all’interno della stessa
Gaza. In questa fase si assiste a una crescita del numero di coloni, passati da
100 mila nel 1982, a 180 mila nel 1984. Così i palestinesi si rendono conto
che, pur avendo il diritto internazionale dalla loro parte, Israele continua a
violare le convenzioni di Ginevra. E così, dopo vent’anni d’occupazione, nel
1987 i palestinesi cominciano la prima Intifada, una ribellione contro la
colonizzazione e contro le leggi militari imposte nei territori occupati, con
la negazione di diritti civili e lo smantellamento di ospedali e scuole
palestinesi. Hamas è un movimento che formalmente viene creato subito
dopo l'inizio della prima Intifada. La ribellione scoppia a Gaza nel campo
profughi di Jabalya, a dicembre 1987. All’epoca, l’OLP rappresentava un fronte
unito comprendente tutti i gruppi palestinesi (come Fatah o il Fronte
popolare). Ma dentro l’Organizzazione non sono rappresentati gli islamisti,
presenti solo in minima parte come corrente conservatrice religiosa all’interno
di Fatah. L’esistenza di movimenti islamisti nei Paesi vicini alla Palestina,
pensiamo ad esempio alla Fratellanza musulmana in Egitto e Giordania, ispira la
creazione di un movimento sociale con organizzazioni caritatevoli che si
occupano di sostenere la popolazione nella Striscia. Allora, Israele praticava una politica di decrescita di
Gaza basata sul blocco dell’esportazione, chiusura delle infrastrutture
pubbliche, e così via. Il fatto è documentato, ad esempio, dall’economista
statunitense Sara Roy, che parla di una “decisione costante di Israele di imporre
una decrescita di Gaza”. Tra le strategie utilizzate – e questo è un fatto poco
conosciuto – c’era anche quella di dividere i movimenti palestinesi. Per questo
c’è un sostegno, da parte di alcuni segmenti politici israeliani (come quello
di Ariel Sharon), al permettere la creazione di movimenti islamisti
palestinesi. L’idea era che questi, poi, avrebbero minato le forze dei gruppi
secolari palestinesi. Così, appunto, viene permessa la nascita di un’associazione
islamista caritatevole che poi diventerà l’Hamas che conosciamo oggi. In breve tempo Hamas diventa un movimento di resistenza
islamica (“Hamas” è acronimo arabo di Movimento di resistenza islamica) e una
forza importante nella ribellione delle pietre, come viene anche chiamata la
prima Intifada. Pietre perché i palestinesi non hanno un esercito, una polizia
o un braccio armato. Per questo usano coltelli e pietre per lottare contro la
potenza militare occupante nel periodo che va dal 1987 al 1993».
Come si svolge, in breve, questo periodo?
«L’Intifada prosegue con forza dal 1987 al 1989. Poi viene messa in secondo
piano dall’invasione da parte di Saddam Hussein del Kuwait. L’OLP, sbarcato in
Tunisia dopo essere stato cacciato nel 1982 dal Libano, è molto lontano dal
conflitto. Ma la ribellione, in ogni caso, crea un senso di coesione nei
territori palestinesi occupati: gruppi e partiti con Weltanschauung
completamente diverse si uniscono nella resistenza, alimentata anche dal
proseguire della colonizzazione dei territori occupati (i coloni passano da 100
mila nel 1982 a 220 mila nel 1990). Un’unità palestinese importante, vedremo,
nel processo degli accordi di Oslo del 1993».
La pubblicazione più recente: Violence and Representation in the Arab Uprisings, Benoît Challand, Cambridge University Press, 2023