Il caso

Dazi al 200% sui vini francesi: quale sarà il destino del cognac?

Le parole di Donald Trump hanno mandato in tilt l'industria francese del vino e degli alcolici – Gli Stati Uniti, d'altro canto, sono uno dei principali mercati per il settore
Marcello Pelizzari
15.03.2025 09:00

Le parole di Donald Trump, giovedì, hanno mandato in tilt l’industria francese del vino e degli alcolici. Riavvolgiamo il nastro: il presidente degli Stati Uniti ha ventilato l’ipotesi di introdurre dazi «del 200%» su tutto ciò che ha una gradazione alcolica e proviene dall’Unione Europea. Champagne compreso, evidentemente. Una risposta, questa, all’annuncio da parte di Bruxelles di voler tassare il whisky americano del 50%. La Francia, nello specifico e suo malgrado, è abituata a queste guerre commerciali. Basti pensare al tira e molla con la Cina per il cognac. E proprio l’industria del cognac, la principale in Europa nel settore degli alcolici, con vendite nel 2024 pari a 3 miliardi di euro, potrebbe subire un forte, fortissimo contraccolpo se alle parole di Trump seguissero i fatti.

Gli Stati Uniti, infatti, rappresentano il mercato principale. Qualche dato sparso: lo scorso anno, le vendite hanno registrato una ripresa del 15% con (quasi) 70 milioni di bottiglie spedite. Una ripresa che ha consentito ai colossi del settore – Hennessy, Martell e Rémy Martin – di mantenere i volumi globali allo stesso livello del 2023. Una stabilità, certo, non priva di criticità e problemi. In Cina, il secondo mercato di riferimento per il cognac, i volumi di vendita sono invece calati del 9%. Proprio in virtù dei dazi infine applicati da Pechino. Parentesi: da un anno e mezzo, circa, un’indagine antidumping del Ministero del Commercio cinese sta colpendo il cognac e l’armagnac. Un’indagine, leggiamo, figlia della decisione europea di applicare una sovrattassa sui veicoli elettrici made in China.

Ora, è chiaro che se Washington applicasse misure ancora più severe e pesanti il cognac si trasformerebbe in una bevanda particolarmente amara per i produttori. E dire che, dopo la pandemia, il settore aveva conosciuto un periodo di crescita ed espansione, a partire dai vigneti. A distanza di pochi anni, invece, il numero di bottiglie spedite è ai minimi rispetto alla media decennale mentre alcune aziende, oramai a corto di liquidità, stanno già valutando tagli al personale.

Fra i produttori, il sentimento che circola con maggiore frequenza è l’incredulità. Jérôme Delord, responsabile della Maison Delord, azienda familiare produttrice di armagnac con sede a Gers, ha spiegato alla Tribune che gli Stati Uniti «rappresentano tra il 10 e il 15% delle nostre vendite». E ancora: «Se le bottiglie che vendiamo a 100 dollari salgono a 300, gli importatori non le vorranno più». Trump, giovedì, ha suggerito che una misura del genere sarebbe «molto positiva per l’industria del vino negli Stati Uniti». Analogamente, però, i dazi potrebbero comportare gravi perdite e tagli fra importatori e distributori americani.

A preoccuparsi, d’altro canto parliamo di 800 milioni di bottiglie prodotte ogni anno, sono pure i viticoltori del Pays-d’oc. Il 42% di questi vini è destinato al mercato estero, con gli Stati Uniti che vantano una quota del 6% per un totale di 15 milioni di bottiglie importate ogni anno. Jacques Gravegeal, presidente dei vini IGP del Pays-d’oc, ha denunciato sempre alla Tribune un attacco diretto alla competitività francese: «La minaccia di una tassa del 200% sui vini europei è del tutto sproporzionata e mette a rischio l’intera industria vinicola francese». Durante il primo mandato di Donald Trump, una tassa del 25% aveva già portato a un calo del 30% della quota di mercato di questi vini negli Stati Uniti. Un’imposta del 200%, di riflesso, farebbe salire il loro prezzo tra i 45 e i 60 dollari. Una fucilata, per i consumatori americani. L’invito, formulato dallo stesso Gravegeal, è quello di reagire. A livello politico e istituzionale. Tanto in Francia, quanto in Europa. «Una tale decisione avrebbe conseguenze nefaste: perdita di entrate, di quote di mercato e indebolimento della nostra presenza internazionale».

Detto dell’incredulità, a farsi largo è anche la preoccupazione. Logico. Jean-Marie Fabre, un produttore di Fitou nel sud della Francia, ha raccontato al Guardian che il settore, nel Paese, è reduce da anni di lotta serratissima: «L’intero settore vinicolo ha attraversato una serie di crisi di diverso tipo che ci hanno già messo a dura prova, tra cui la crisi del Covid, l’inflazione, la guerra in Ucraina e i problemi climatici. I viticoltori, indipendentemente dalle loro dimensioni, ma in particolare i piccoli viticoltori, si sono trovati in una posizione fragile».