Il retroscena

Dazi, ecco perché Trump si è fermato

Il presidente degli Stati Uniti costretto a fare marcia indietro dalla inattesa debolezza del dollaro e dall'impennata dei rendimenti dei titoli del Tesoro – Decisiva la pressione dei senatori del Partito Repubblicano
© KEYSTONE (AP Photo/Eric Gay)
Dario Campione
10.04.2025 22:03

L’Unione europea si allinea alla svolta di Donald Trump. Ma decide di non togliere il «bazooka» dal tavolo. Bruxelles ha comunicato di aver sospeso per 90 giorni i controdazi sui prodotti USA. Ma, nello stesso tempo, ha confermato di voler comunque completare le procedure per le nuove tariffe. Se il negoziato con Washington dovesse arenarsi o, peggio, naufragare, saranno immediatamente operative.

«Abbiamo preso atto di quanto annunciato dal presidente Trump - ha detto la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen - Vogliamo dare una possibilità ai negoziati. Mentre finalizzeremo l’adozione delle contromisure dell’UE, che hanno ottenuto un forte sostegno dai nostri Stati membri, le sospenderemo per 90 giorni. Se i negoziati non saranno soddisfacenti, le nostre contromisure entreranno in vigore. I lavori preparatori per ulteriori contromisure continuano. Come ho già detto, tutte le opzioni rimangono sul tavolo».

L’attendismo di von der Leyen è parso a molti obbligato. Nel corso della riunione del Comitato che riunisce i 27 rappresentanti permanenti (COREPER), molti Paesi dell’Unione hanno espresso la propria soddisfazione per la retromarcia di Trump. Allo stesso modo, quasi tutti hanno invocato prudenza, dicendo apertamente che le scelte di Washington vanno «prese con le molle». Insomma, nessuno si fida del tycoon e delle sue improvvise capriole.

L’attacco di Friedman

Intanto, negli Stati Uniti - e non solo - si sprecano le analisi sui motivi che avrebbero spinto il presidente americano a fare una brusca inversione. Thomas Friedman, tre volte vincitore del premio Pulitzer ed editorialista di punta del New York Times, probabilmente il giornalista della carta stampata più influente negli USA, ha usato il tono più duro possibile: «Una riflessione continua a tornarmi in mente - ha scritto Friedman - se assumi pagliacci, devi aspettarti un circo. E, miei concittadini americani, noi abbiamo assunto un gruppo di pagliacci». La critica dell’articolista di Minneapolis, con tutta evidenza, è figlia di un’avversione politico-culturale palese e mai nascosta. E non spiega del tutto il modo di agire del tycoon. Sulla cui marcia indietro hanno probabilmente pesato fattori molto più concreti. Ad esempio, il rischio concreto di una pesantissima recessione.

A differenza di molte altre fasi di tensione finanziaria dell’ultimo trentennio, hanno spiegato alcuni analisti, l’annuncio del «Liberation Day» di Donald Trump ha avuto conseguenze impreviste sul dollaro e sui titoli del Tesoro americano. Ovvero, i beni rifugio sin qui comprati dagli investitori quando Wall Street è nella tempesta.

In questa crisi, però, stranamente è accaduto il contrario.

Dal momento in cui il presidente ha mostrato la tabella con i dazi nel Giardino delle Rose, e fino alla «parziale ritirata di mercoledì», il dollaro ha perso il 2% sulla media delle altre principali valute: «un’immensità, per il valore più liquido al mondo», ha scritto il Wall Street Journal.

Nel frattempo, i rendimenti dei titoli di Stato USA a dieci anni si sono impennati da meno del 4% a quasi il 4,5%. Segnale inequivocabile che «qualcuno stava vendendo pesantemente la carta sovrana dell’America, il cui costo del debito saliva. Potevano essere fondi a caccia di denaro dopo le perdite di Borsa. E poteva anche essere, in parte, la Cina». Il debito pubblico americano detenuto nelle riserve di Pechino è sceso infatti dai 1.300 miliardi del 2013 agli attuali 761 (ma secondo un’analisi del quotidiano spagnolo el País sarebbero “soltanto” 690). Una quota più che dimezzata dalla decisione della Banca centrale cinese di limitare i rinnovi dei titoli USA in scadenza.

Le telefonate durante la diretta

Sulla stampa americana, come detto, si sono succedute a ritmo serrato anche le ricostruzioni su quanto accaduto tra martedì e mercoledì dentro l’amministrazione USA e dentro il Partito Repubblicano.

Nel tentativo di limitare i danni d’immagine, parlando con i giornalisti alla Casa Bianca il segretario al Tesoro Scott Bessent ha detto che la «possibilità di una pausa era stata discussa già domenica» e che questa era «la strategia fin dall’inizio». Ma secondo il Washington Post, a convincere Trump sarebbe stato soprattutto il pressing di molti esponenti del Grand Old Party, assieme alle conversazioni con alcuni leader mondiali (e, tra loro, la presidente della Svizzera Karin Keller Sutter).

Nella tarda serata di martedì, al termine di Hannity - lo show di Sean Hannity in onda alle 21 su Fox News notoriamente seguito anche dallo Studio Ovale - Trump ha avuto una lunga telefonata, durata un’ora, con un gruppo di senatori repubblicani che erano appena apparsi in trasmissione. Alcuni di loro avevano criticato apertamente i dazi ed espresso preoccupazione per le possibili conseguenze.

Stando alla dettagliata ricostruzione del Washington Post, prima della fine dell’ultima pausa pubblicitaria, durante la sua intervista a Hannity, il senatore repubblicano della Lousiana John Neely Kennedy ha chiesto al conduttore «15 secondi per parlare direttamente con il presidente». E a Trump, Kennedy avrebbe detto: «Lascerò a te decidere cosa è abbastanza e cosa non è abbastanza, ma penso che tu possa vedere l’ansia delle persone». A fare pressione sul tycoon, con Kennedy, sono stati il leader della maggioranza repubblicana al Senato John Thune (South Dakota) e i colleghi Lindsey Graham (South Carolina), Tim Scott (South Carolina), Katie Boyd Britt (Alabama), Tom Cotton (Arkansas), Ted Cruz (Texas) e Markwayne Mullin (Oklahoma).  

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