L'analisi

«Il cielo non cadrà»: la Cina e la narrativa della resistenza economica a Trump

Il Quotidiano del Popolo insiste: il Paese si era preparato a una guerra commerciale con gli Stati Uniti – Il viceministro del Commercio, dal canto suo, rassicura le imprese USA: «Proteggeremo i vostri interessi»
©Alex Brandon
Marcello Pelizzari
07.04.2025 12:15

Può piegarsi, ma di sicuro non si spezza. Questa, almeno, è l'immagine della Cina che intendono veicolare i suoi leader. Economici e politici. I dazi di Donald Trump e i tumulti dei mercati? Il Dragone dovrà soffrire, certo, ma il Paese – nell'insieme – riuscirà a gestire un simile caos. Detto in altri termini: era ed è preparato a simili scenari. Domenica, un editoriale del Quotidiano del Popolo, organo di stampa del Partito Comunista, ha insistito proprio su questo aspetto: Pechino da tempo si stava preparando a una guerra commerciale con gli Stati Uniti tant'è che, ora che ci troviamo in medias res, lo stesso Partito promuove addirittura una narrazione vincente. Della serie: ne usciremo migliori, o comunque più forti.

Il Quotidiano, nel dettaglio, ha scritto che la politica aggressiva del presidente americano avrà, manco a dirlo, un impatto diretto (e forte) sulla Cina. «Ma il cielo non cadrà». E ancora: «La Cina è una supereconomia. Siamo forti e resistenti di fronte al bullismo tariffario degli Stati Uniti». Pechino, soprattutto, ha giocato una carta paradossalmente non sua. Quella del Paese responsabile e deciso a mantenere lo status quo o, se preferite, un commercio globalmente equo. Dall'essere accusato di voler disegnare un nuovo ordine al difendere il sistema attuale, insomma, il passo è stato breve. Ancorché logico. La Cina, tramite il citato Quotidiano del Popolo, ha accusato gli Stati Uniti di voler «sovvertire l'ordine economico e commerciale internazionale esistente» e, al contempo, di anteporre «gli interessi statunitensi al di sopra del bene comune della comunità internazionale». Washington, nello specifico, starebbe portando avanti «le ambizioni egemoniche degli Stati Uniti a scapito dei legittimi interessi di tutti i Paesi». 

La Cina, leggendo fra le righe, non vuole assolutamente mostrarsi debole agli occhi di Trump. Né lasciar intendere che i dazi applicati dall'amministrazione attualmente in carica potrebbero infliggere danni seri a Pechino. Agli occhi del tycoon, il Dragone paga peccati originali troppo grossi. È uno dei principali esportatori mondiali, con un enorme surplus commerciale, e di conseguenza può godere di un flusso costante di valuta estera che permette a Pechino di accumulare riserve e difendere lo yuan. Le esportazioni, d'altro canto, rimangono il vero e proprio motore dell'economia cinese, a maggior ragione se consideriamo che il Paese sta uscendo, a fatica, da una pesante crisi immobiliare e lamenta altri problemi economici. Problemi che, però, non sembrerebbero disturbare. Almeno stando alle valutazioni del Quotidiano: la Cina, volendo riassumere al massimo, può resistere ai dazi di Trump poiché non è più America-dipendente a livello di esportazioni. Di più, le banche cinesi sono ben capitalizzate e possono iniettare denaro nell'economia nazionale mentre la risposta agli Stati Uniti potrebbe passare altresì da nuovi strumenti normativi. Venerdì, ad esempio, una decina e oltre di aziende americane è stata inserita in una lista di identità «inaffidabili» mentre altre 16 verranno controllate. Pechino, allargando il campo, ha dichiarato che imporrà dazi doganali del 34% su tutti i prodotti statunitensi a partire dal prossimo 10 aprile, secondo quanto comunicato dal Ministero del Commercio cinese, «in aggiunta all'aliquota dei dazi doganali attualmente applicabili». Non solo, verranno adottati anche controlli sulle esportazioni di sette articoli «correlati alle terre rare». Nel dettaglio: «In conformità con la legge sul controllo delle esportazioni della Repubblica Popolare Cinese e altre leggi e normative pertinenti, il 4 aprile il Ministero del Commercio, insieme all'Amministrazione generale delle dogane, ha emesso un annuncio sull'attuazione di misure di controllo delle esportazioni su sette tipi di articoli medi e pesanti correlati alle terre rare, tra cui samario, gadolinio, terbio, disprosio, lutezio, scandio e ittrio, ed è stato ufficialmente implementato nella data di emissione». Il gadolinio viene comunemente utilizzato nelle risonanze magnetiche, mentre l'ittrio è impiegato nell'elettronica di consumo.

L'obiettivo, evidentemente, è avviare colloqui di alto, altissimo livello con Washington per preparare il terreno in vista di un possibile vertice fra Trump e il leader cinese Xi Jinping. A oggi, in ogni caso, nonostante una certa apertura del presidente statunitense la Casa Bianca non sembra intenzionata, non ancora, a sedersi al tavolo con la Cina. Ma le azioni di Pechino, sin qui, secondo gli esperti sono state strutturate in modo che la porta del negoziato rimanga, sempre e comunque, aperta. Lo stesso Quotidiano del Popolo, nel commentare i dazi di Trump, ha ribadito che la porta «non è stata chiusa» sebbene la Cina si sia preparata (e si stia preparando) al peggio. Puntando, ad esempio, con forza sul suo vastissimo mercato interno. «Dobbiamo trasformare la pressione in motivazione» si legge nell'editoriale. 

Come spesso accade, la Cina ha promosso la sua narrazione e, parallelamente, censurato le voci critiche. Venerdì, riferisce il New York Times, un ricercatore dell'Accademia cinese di scienze sociali ha definito «completamente sbagliate», sui social, le contromisure adottate dalla Cina. «Gli Stati Uniti si stanno tirando la zappa sui piedi con le tariffe, quindi non dovremmo tirarci la zappa sui piedi pure noi» ha scritto il ricercatore in questione, He Bin, vicedirettore del Center for Public Policy Research dell'Accademia. «La contromisura corretta è quella di non attuare tariffe, unilateralmente, sulle importazioni da tutti i Paesi». Considerazioni, queste, affidate a WeChat ma visibili solo ad amici e  conoscenti. Uno screenshot, tuttavia, ha iniziato a circolare con forza attirando l'attenzione delle autorità. Ieri, domenica, l'Accademia ha annunciato la chiusura del centro di cui He Bin era vicedirettore. Pur senza motivare la decisione, è chiaro che la mossa ha un addentellato politico: nei regolamenti interni della stessa Accademia, scrive sempre il New York Times, viene ricordato come i centri debbano «aderire alla corretta direzione politica». Le schermate con i commenti del ricercatore sono state oscurate anche su Weibo, un'altra piattaforma di social media molto popolare in Cina.

Il centro era già balzato agli onori della cronaca lo scorso anno dopo che il suo direttore, Zhu Hengpeng, era stato arrestato e rimosso dai suoi incarichi per aver presumibilmente espresso commenti critici nei confronti di Xi in una chat privata di gruppo, come aveva riportato il Wall Street Journal lo scorso settembre. Sui social media cinesi, i commentatori nazionalisti hanno esultato per la chiusura del centro, collegandola ai commenti di He Bin: «Sostenete con determinazione lo spirito della direttiva del governo centrale» ha scritto un blogger militare con 4 milioni di follower su Weibo.

Può piegarsi, dicevamo, ma non si spezza. Non solo, la Cina in un altro sforzo all'insegna del volemose bene ha assicurato di voler proteggere e tutelare gli interessi delle aziende statunitensi nel Paese e di rimanere, citiamo il viceministro del Commercio Ling Ji, una «terra promettente» per gli investimenti stranieri. I controdazi? Agli occhi di Ling Ji «mirano a riportare gli Stati Uniti sulla retta via del sistema commerciale multilaterale». «La causa principale del problema dei dazi risiede negli Stati Uniti» ha osservato il viceministro, invitando le aziende a «intraprendere tutte le azioni pragmatiche per mantenere in modo congiunto la stabilità delle catene di fornitura globali e per promuovere la cooperazione reciproca e i risultati vantaggiosi per tutti». Se la Cina resiste, i timori che si scateni una guerra commerciale globale e una conseguente recessione economica hanno travolto, oggi, i listini asiatici, con record negativi che hanno richiamato il 1997 e il crollo delle cosiddette Tigri asiatiche.