Scenari internazionali

Lo scontro USA-Cina dietro il voto di Taiwan

Il prossimo 13 gennaio l’isola che Pechino vorrebbe annettersi eleggerà il Capo dello Stato e rinnoverà il Parlamento - I toni di minaccia del Partito Comunista cinese spingono tutte le forze politiche a difendere lo statu quo
Il 13 gennaio prossimo si vota a Taiwan per le presidenziali e per il Parlamento. ©RITCHIE B. TONGO
Dario Campione
27.12.2023 20:33

Gennaio, giugno, novembre: il 2024 elettorale ha in calendario tre appuntamenti che, in un contesto geopolitico stravolto - a cominciare dalla guerra in Ucraina, di cui non si vede la fine, e dal conflitto in Medio Oriente, la cui intensità crescente può portare a conseguenze imprevedibili - assumono una straordinaria importanza. Il 13 gennaio si vota a Taiwan per eleggere il presidente e il Parlamento. Il 9 giugno vanno alle urne i cittadini dell’Unione Europea per rinnovare l’assemblea di Strasburgo. E il 5 novembre, si celebra il più atteso (degli ultimi decenni) armageddon delle democrazie di stampo occidentale: la sfida per la Casa Bianca, la probabile rivincita tra Joe Biden e Donald Trump.

Nel mondo della nuova bipolarità USA-Cina, l’appuntamento di Taiwan, il primo della lista, è diventato uno snodo primario. Lo sguardo della politica internazionale è rivolto verso Taipei non tanto per conoscere il nome del futuro presidente dell’isola, quanto piuttosto per capire in che direzione andranno i rapporti tra le due grandi superpotenze globali.

I toni apparentemente ultimativi di Xi Jinping, che negli ultimi anni ha più volte ribadito di voler ripetere a Taiwan quanto fatto a Hong Kong, aprono scenari di conflitto “caldo”. Soprattutto qualora le elezioni nell’isola dovessero premiare il candidato del Partito Democratico Progressista e vicepresidente uscente, il 64enne Lai Ching-te, considerato da Xi un indipendentista sovversivo. L’altro giorno, l’agenzia ufficiale di Pechino, Xinhua (Nuova Cina), ha battuto una dichiarazione del portavoce dell’Ufficio per gli affari di Taiwan del Consiglio di Stato, Chen Binhua, la cui interpretazione non lascia spazio alla fantasia: «L’indipendenza di Taiwan significa guerra - ha detto Chen Binhua - Sostenere il principio di una sola Cina trova il consenso universale della comunità internazionale, opporsi all’indipendenza di Taiwan e salvaguardare la pace è la strada giusta per l’umanità».

Parole proibite

«Il vicepresidente Lai Ching-te sembra essere favorito, anche se nei sondaggi il grande vantaggio che aveva alcuni mesi fa sembra assottigliarsi. Ma sarebbe sbagliato interpretare le elezioni di Taiwan come un referendum pro Cina o pro indipendenza: anche lì, così come altrove, i cittadini votano con le viscere, guardano ai temi concreti - l’economia, le pensioni, il caro affitti - e non la politica estera». Stefano Pelaggi insegna nel Dipartimento di Storia della Sapienza a Roma ed è ricercatore del Taiwan Center for International Strategic Studies (TCISS) di Taipei. L’ultimo suo lavoro, L’isola sospesa. Taiwan e gli equilibri del mondo (LUISS University Press), è una delle analisi, dal profilo storico, più aggiornate della questione taiwanese pubblicate in italiano.

«Capire l’isola - dice Pelaggi al CdT - non è facile. Il Paese è fortemente tribalizzato, diviso al suo interno. Ma su alcune questioni le differenze sono minime. Il rapporto con Pechino, ad esempio, è una questione quasi esistenziale per Taiwan, ma riunificazione e indipendenza sono parole proibite per tutti gli attori politici: il DPP al potere, il Kuomintang che ha governato ininterrottamente per decenni e anche il Partito Popolare di Ko Wen-je».

Se oggi gli eredi di Chiang Kai-shek sembrano essere, paradossalmente, alla guida del partito più filocinese, c’è una spiegazione, spiega Pelaggi: «Il Kuomintang non ha mai rinunciato all’obiettivo dell’unica Cina, ma è perfettamente consapevole di come la situazione sia cambiata negli ultimi anni. La Cina che sulla spinta dell’apertura verso il mercato lasciava intravvedere una parvenza di democratizzazione non si è mai concretizzata. Non solo: Pechino non ha più alcuna capacità di attrazione, non dopo quanto accaduto a Hong Kong. La stessa Cina ha di fatto abbandonato ogni speranza di un processo di unificazione spontaneo, e a Taipei non ci sono forze politiche che possano sostenere un percorso del genere».

Anche l’intervento senza aperture di Xi Jinping all’ultimo congresso del Partito Comunista cinese, il ventesimo, è «un segno abbastanza netto del fatto che il leader nulla si aspetta dal voto del 13 gennaio, avendo capito che a Taiwan il minimo comune denominatore delle forze politiche è la difesa della sovranità. Sono persino convinto che a Pechino non sarebbero contenti di una vittoria del Kuomintang, perché a quel punto dovrebbero cercare un dialogo che avrebbe conseguenze interne negative».

Lotta per l’egemonia

Resta il fatto che Xi Jinping non può rinunciare a Taiwan, non dopo aver descritto come vitale, in ogni suo discorso, il compimento della nazione cinese. «Una Cina che tenta di ribaltare l’egemonia degli Stati Uniti a livello globale - fa notare ancora lo storico della Sapienza - deve uscire da questa impasse. Non può esserci aspirante egemone che abbia un problema interno così grande. Tuttavia, a oggi non riesco ancora a immaginare come la Cina possa portare avanti un’azione di forza. E questo, nonostante le parole di Xi. Parole che hanno un’intensità mai vista e che da qualche parte dovranno pure andare».

Il punto è che Taipei è fondamentale anche per Washington. «Se non difendessero l’isola - spiega Pelaggi - gli Stati Uniti non sarebbero più una potenza globale ma regionale. Quindi, la questione Taiwan è esistenziale anche per Joe Biden, il quale ben sa che il futuro del mondo si giocherà nel Pacifico».

La reazione occidentale all’invasione russa dell’Ucraina, conclude Stefano Pelaggi, «ha sicuramente impressionato la Cina, Paese che non potrebbe permettersi di affrontare sanzioni internazionali come quelle applicate a Mosca. Vero è che a Pechino, con un uomo solo al comando, tutto può succedere. Ma sembra davvero molto difficile, almeno in questo momento, immaginare un’azione di forza: sarebbe l’evento più tragico della storia dalla Seconda Guerra mondiale in poi».