Trump, dazi e diplomazia: perché i 90 giorni di tregua non convincono nessuno

Il piano, a detta di Donald Trump e dei suoi consiglieri più stretti, è sempre stato questo: spaventare il mondo (e i mercati) annunciando dazi elevati, in taluni casi elevatissimi, spingere i Paesi coinvolti a sedersi al tavolo per trattare, Cina compresa teoricamente, firmare nuovi accordi e andare avanti, al grido America First. La pausa di 90 giorni sulle cosiddette tariffe reciproche, tuttavia, fa dubitare e non poco esperti e analisti: davvero la Casa Bianca riuscirà a stringere accordi bilaterali con decine e decine di Paesi in appena tre mesi?
Per ora, sottolinea la CNN, i citati mercati non se la sono bevuta. I titoli azionari, fra gli altri, sono stati investiti da un'ondata di volatilità mentre dollaro, obbligazioni e petrolio hanno lanciato un messaggio piuttosto chiaro: a dominare è lo scetticismo. Della serie: no, il tycoon non ce la farà. L'amministrazione Trump, per contro, ritiene di aver agito correttamente e, soprattutto, di poter gestire una simile mole di lavoro. Scott Bessent, il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, colui che avrebbe fatto ragionare il presidente, questa settimana ha spiegato che oltre 70 Paesi hanno insistito per incontrare i rappresentanti americani e, parallelamente, per trovare un accordo. Non sappiamo se la Svizzera sia in prima fila fra queste nazioni, anche se l'oramai celebre telefonata di Karin Keller-Sutter a Trump e il certosino lavoro diplomatico di Berna, per tacere dell'importanza della Confederazione per l'economia americana, dovrebbero essere sinonimo di priority list volendo usare un termine gergale. L'amministrazione Trump, dal canto suo, ha soltanto fatto intuire che alleati storici come la Corea del Sud e il Giappone saranno fra i primi a essere accontentati.
Detto ciò, firmare accordi non è come presentarsi, puntuali, dal gommista per sostituire gli pneumatici in vista della bella stagione. La stessa CNN parla di un iter solitamente complesso, che necessita di anni e anni di negoziazioni. Difficile, insomma, ridurre il tutto a pochi mesi. E di moltiplicare tutto ciò per più nazioni. «Stiamo parlando con molti Paesi» ha insistito il presidente degli Stati Uniti, quasi a voler rassicurare le Borse. «Siamo in una buona posizione sui dazi». Possibile. Tuttavia, resta (e resterà) una questione di fondo. Inevasa e centrale: la Cina, già. La chiave per uscire dal clima, generale, di incertezza passa, inevitabilmente, da un accordo con Pechino. Più facile a dirsi che a farsi, al di là delle dichiarazioni e della retorica di Trump: «Sono sempre andato d'accordo con Xi» ha ribadito una volta di più il tycoon. «Penso che verrà fuori qualcosa di positivo con la Cina». Può darsi, ma intanto – a differenza di altri – il Dragone non si è messo in fila per incontrare il presidente statunitense. Al contrario, sembrerebbe intenzionato a dar vita a una vera e propria guerra commerciale. Xi Jinping, nel suo primo, vero commento ufficiale alla vicenda, ha sentenziato: «La mia nazione non ha paura».
Il quadro, attualmente, è problematico: Washington è salito al 145% sui beni importati dalla Cina mentre Pechino, venerdì, ha risposto alzando le tariffe sui prodotti statunitensi al 125%. Anche in caso di accordi a cascata fra gli Stati Uniti e i tanti Paesi in fila, per dirla con la Casa Bianca, resta appunto la questione di fondo: se le due maggiori economie mondiali continuano a battagliare, il danno (per tutti) sarà notevole. Non solo, esperti e analisti concordano nell'affermare che la frittata, oramai, è bella che fatta: durante questi 90 giorni di pausa, e al netto di alcune eccezioni promesse da Trump, rimarranno in vigore per tutti tariffe «punitive» del 10% mentre rimarranno in vigore i dazi del 25% su acciaio, alluminio e automobili, come pure quelli del 25% su alcuni beni provenienti da Canada e Messico. Tradotto: lo sforzo, notevole, dell'amministrazione Trump, decisa a sedersi al tavolo con decine e decine di Paesi, potrebbe comunque non bastare. Colossi come JP Morgan e Goldman Sachs, all'orizzonte, vedono un forte rischio di recessione per l'economia statunitense. Divertitevi pure con i giochi di parole su dazi e amarezza.